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- Scritto da Silvia Bianchetti
- Pubblicato: 08 Luglio 2015
- Ultima modifica: 22 Maggio 2017
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SILVIA BIANCHETTI
QUANDO L’AQUILA VOLÒ SULLA TORRE
Note storico-araldiche sullo stemma del Comune di Quinzano d’Oglio
Indice
- Premessa
- Cenni di araldica civica
- Note storiche sullo stemma civico di Quinzano
- La questione araldica: quando l’aquila volò sulla torre
- Di rosso e d’argento: variazioni cromatiche nella storia
- Leggere lo stemma: l’araldica spuria degli ornamenti esteriori
- Blasoni e note extrablasoniche (a cura di M.C.A. Gorra e F. Bianchetti)
- Appendice normativa. Le Autonomie Locali fra titolo giuridico e riconoscimento formale
- Bibliografia
Si ringraziano per i blasoni e la revisione critica del testo
il Prof. Maurizio Carlo Alberto Gorra (Membro Associato AIH - Académie Internationale d’Héraldique)
e Fabio Bianchetti (araldista, studioso della materia).
Si ringrazia altresì il Comune di Quinzano per per aver messo a disposizione il proprio materiale d'archivio.
Quando stavo preparando qualche lavoro, bussavi alla stanza e mi chiedevi come andasse, a che punto fossi, volevi vedere il monitor e commentavi scherzosamente l’intrico di mappe e parole. Solo ora so che questo studio è anche - e tantissimo - tuo, splendido papà e impiegato rigoroso e bonario d’un tempo, che mi hai insegnato tutto.
A mamma Virginia, a Elena e alla memoria del mio meraviglioso papà Lino.
Silvia
«... Finché un giorno li noti, li osservi meglio, ti accorgi del loro fascino sottile, e pian piano afferri quanto sono utili. Sono fatti apposta per essere visti, notati, ascoltati. Sembrano muti, ma in realtà parlano a chi li ascolta. L’uomo, dove e quando passa, lascia un segno. Fra i segni che ha inventato per farsi riconoscere e ricordare, gli stemmi sono fra i più gradevoli, ricchi di significato, facilmente utilizzabili nell’arte. Dicono chi era presente in un luogo, e aiutano a saperne il perché. Fanno conoscere chi ci ha preceduto, e chi ci era ignoto. Rivelano chi ha fatto realizzare un’opera e guidano a ricostruirne vicissitudini storiche e passaggi di proprietà. Rendono presenti gli assenti, anche a distanza di tempo... Gli stemmi sono uno stimolo per approfondire la Storia di tutti e le storie di ognuno».
Maurizio Carlo Alberto Gorra
Premessa
Nel comune sentire, l’araldica è una scienza dallo statuto controverso in quanto per secoli ha pagato lo scotto di una duplice e contrapposta falsità: da un lato la presunta adesione a un’inessenziale e snobistica vanità; dall’altro proprio in quanto “scienza del simbolo” (o meglio del “segno”[1]) di natura eminentemente figurativa, subendo la legittimazione di ricostruzioni storiche spesso fantasiose che ne hanno inficiato la serietà. In realtà, l’araldica si pone a pieno titolo fra le scienze della storia e dell’arte, strumento d’indagine ed essa stessa indagata per gettare luce su vicende che partono dal basso Medioevo e di cui non sempre possediamo sufficiente documentazione scritta o archivistica: si pensi solo al ruolo che essa può avere nella datazione o nell’attribuzione di un’opera, nella proprietà di un edificio nonché nella ricostruzione di vicende genealogiche e familiari necessaria alla comprensione di un’epoca e non sempre di facile lettura per il reiterarsi dei nomi (in ambito feudale soggetti ad un complesso sistema di ereditarietà), per la loro diversificata trascrizione negli antichi atti notarili e per l’incerta affermazione dei cognomi nel XII secolo. D’altra parte, l’araldica non fu quasi mai – con l’eccezione della tradizione sabauda – appannaggio esclusivo della nobiltà, ma d’uso comune per realtà istituzionali, piccolo patriziato locale, ceti mercantili o comunque borghesi, contadini ricchi e ciò proprio perché si trattava di un codice socialmente condiviso e profondamente connaturato al sentire “emblematico” che permeava l’uomo medievale: dall’araldica dipinta o spesso sommariamente scolpita sulle case di paese al ricco apparato scenografico delle esequie di Gian Galeazzo Visconti del 20 ottobre 1402, di cui il cremonese Francesco Arisio lasciò una precisa e dinamica descrizione (inserita dal Muratori nei suoi monumentali Rerum Italicarum Scriptores), precisando l’ordine di movimento ed i nobili convenuti in rappresentanza delle varie terre con le relative insegne e drappeggi, con al trentanovesimo posto della schiera processionale «Homines equestres Brixiae»:
et ipsi homines equestres compartiti ut supra detulerunt & deferebant singuli secondum quod compartiti erant, vexilla & insignia illius Civitatis vel terrae. (Arisi, 1730).
Tralasciando l’aspetto pur notevole della sua indubbia valenza artistica, scultorea e pittorica (fra l’altro gli stemmari sono fra i più bei codici manoscritti), la nascita e l’affermazione di questa attività estetica nell’ambito della cultura e della mentalità medievale hanno per noi oggi, come l’ebbero nei secoli passati, un’importante conseguenza: la mancanza di riferimenti scritti e di rimandi univoci per significare qualcosa che agli antichi doveva parere pacifico ed immediato, ha comportato tutta una serie di fantasiose licenze che hanno finito per suffragarsi a vicenda come mezze verità. Si tenga presente che il metodo d’indagine storiografica moderno, ovvero basato sulle fonti e sul lavoro filologico, risale non più indietro del XVIII secolo con il Muratori, a parte apprezzabili eccezioni.
Il periodo medievale e rinascimentale fu ricco di cronache, preziosissime per la ricostruzione di vicende anche se spesso inficiate da elementi di pesante partigianeria per le fazioni in lotta, e quindi di omissioni, interpolazioni e falsificazioni, che lo studioso moderno attentamente indaga come un investigatore del passato, tantopiù che l’universo psicologico e sociale dell’uomo dei secoli XII-XIV non è quello contemporaneo: il ricco corredo simbolico del medioevo, la sua cultura materiale, la permeabilità fra tangibile ed immaginario sono elementi muti per la nostra sensibilità, alquanto portata al loro travisamento o all’applicazione di categorie ermeneutiche incongrue e fuorvianti.
Già la storiografia secentesca, con il suo spiccato gusto per la genealogia e l’araldica agiografica, fu alquanto prodiga di notizie ed album familiari di pura fantasia, cortigianesca quanto basta per omaggiare potenti patroni declamando le gesta delle loro insegne innalzate nei campi degli imperatori romani o addirittura nella guerra di Troia, se non già da Adamo ed Eva. Il Guerrini fu tutt’altro che tenero nei confronti degli scrittori barocchi: un pragmatico razionalismo già noto ai tardi sacerdoti egizi nel V sec. a.C., quando dimostrarono allo storico greco Ecateo, vantante una stirpe di trecento o quattrocento anni con progenitori divini, che nessun essere umano risale a un dio, e gli palesarono gli archivi del tempio, dai quali per la carica sacerdotate si poteva risalire nominativamente da figlio in padre lungo il corso di tre millenni.
Analogamente, è opinione degli studiosi più seri che una ricerca araldica non possa non essere costellata di “se” e di “forse”, oltreché far riferimento a precisi termini storici, quando esistano, anche in forma largamente indiziaria: per intenderci, prima del XII secolo non sono attestati stemmi strictu sensued il suffragarne l’esistenza privi di appoggi documentaristici è servizio tanto temerario quanto fantasioso, come del resto lo è perdersi dietro a minuzie stilistiche di poco conto: le insegne furono infatti estremamente mutevoli nel tempo già negli elementi maggiori (cioè nelle partizioni e nelle figure, come meglio vedremo più avanti) in relazione a vicende politiche, alleanze e matrimoni. Inoltre, variazioni nel disegno degli ornati e degli scudi si ebbero spesso per esigenze di resa scultorea o per realizzazioni di artisti non sempre filologicamente consapevoli. Pertanto, proprio per queste ragioni, in quanto avente quale oggetto una costellazione iconico-semantica stratificata in secoli di storia e fortemente correlata alla ricerca, la traduzione attuale del linguaggio araldico va cautelativamente declinata al condizionale con tutte le attenzioni conseguenti al moderno approccio scientifico verso le tematiche della storia. Le stesse figurazioni possono aver subito importanti mutamenti nel tempo, sia per l’araldica gentilizia[2] sia, a maggior ragione, per quella civica[3], ancor più soggetta a variazioni ed obliterazioni di natura politica: il Borgia (1991), pur riferendosi all’area toscana, fa notare che in linea di massima gli stemmi civici posti su monumenti o in codici «non sono più, tranne che in rari casi, quelli originali», come già aveva rimarcato pure Dupré Theseider (1978) mettendo in guardia da attribuzioni sommarie o false letture. Di ciò bisognerà dunque tener conto per sopravvivere a suggestioni mitico-letterarie o a costruzioni postume: tentazioni a cui apre il campo la modestia, l’episodicità o la dispersione delle fonti di ricerca, spesso non più che indiziarie.
Cenni di araldica civica
I Comuni medievali assunsero stemmi e sigilli non appena conseguirono autonomia e personalità giuridica[4]: una tendenza che si generalizzò verso la seconda metà del sec. XII, peraltro in parallelo con la tradizionale epoca di comparsa dell’araldica, che nacque riprendendo le insegne che consentivano la manovra ed il riconoscimento sul campo di battaglia[5] di combattenti pesantemente occultati da armature e celate e privi delle uniformi rappresentative degli eserciti moderni. Non che prima mancassero figurazioni sugli scudi o sull’equipaggiamento in generale, ma si trattava perlopiù di indifferenziati glifi o di segni quasi totemici come la serpe dei gruppi arimannici longobardi, segni che non avevano ancora assunto le caratteristiche del codice individualizzante e descrittivo proprio dell’araldica e molto ben esemplificato da una testimonianza tarda: ancora nel 1346, all’indomani della battaglia di Crécy, il re d’Inghilterra, con una disposizione invero alquanto rara, vietò la spoliazione sul campo dei cadaveri, affinché se ne potesse effettuare il riconoscimento. A ciò attesero due araldi, cioè due professionisti di corte (i cosiddetti roi d’armes) in grado di provvedere alla corretta attribuzione della casata ai caduti mediante le insegne proprie, in un frangente quale quello della guerra medievale, che studi di paleopatologia e osteologia ci rammentano prodigo di mutilazioni e di ferite deformanti.
In effetti, molto si è discusso sulla genesi delle insegne, ma ormai una buona parte degli studiosi, fra cui l’autorevole Borgia (1991), ritiene che soprattutto in ambito civico esse abbiano in origine campeggiato sui vessilli e sui drappi, prevalentemente monocromi o al più bicromi e con colorazioni vivaci per adempiere al meglio al loro scopo: è stata avanzata l’ipotesi secondo cui le insegne figurativamente più semplici (quali ornati geometrici, fasce e troncati) possano essere anche le più antiche, tradendo attraverso la trasposizione di disegni di stoffe[6] la loro origine eminentemente vessillare o da mostreggiature e bandiere di segnalazione per movimenti campali[7]. Da queste erediteranno anche altre caratteristiche, che ritroveremo nei secoli successivi con connotazioni ideologicamente più complesse: in primis la semplicità delle linee e la assoluta leggibilità, derivante dalla visibilità necessaria sul campo di battaglia, in cui nessun cavaliere o fante poteva superare il vessillo principale o attardarsi dietro a quelli degli ufficiali guardaschiera, impegnanti al mantenimento dell’ordine di marcia o di combattimento. In secondo luogo, la dignità attribuita al codice di differenziazione e riconoscimento che l’araldica delle origini andava elaborando, potrebbe avere almeno in parte raccolto l’antica sacralità annessa ai drappi quali strumenti privilegiati di mobilità bellica e da cui poteva dipendere l’esito di un confronto armato: non era infatti infrequente che la fuga dei vessilliferi privasse l’esercito di riferimenti causandone la disfatta, per cui nei trattati militari veniva spesso consigliato al comandante accorto di porre «a’ più forti in mano le ‘nsegne» (Giordano da Pisa, 1260-1310), mentre i coevi Statuti cittadini minacciavano pene esemplari (fino alla condanna capitale, alla confisca di tutti i beni ed all’onta perpetua per i discendenti con pesanti implicazioni economiche) per i portatori che non si fossero attenuti agli obblighi della loro funzione.
A questi elementi, per così dire primitivi (o originari, se si preferisce), se ne aggiunsero presto altri, direttamente derivati dalla peculiare inclinazione simbolica dell’arte medievale. Le insegne diventano così al contempo celebrazione dell’individualizzazione (o dell’autonomia per una città) in una società rigidamente suddivisa per ordini, ed epifania esornativa di valori ed idee insite in esse: non nel senso di un arcano esoterico da sciogliere, bensì come «laudatio del proprio potere o della potestas directiva da cui deriva» (Zug Tucci, 1978). In tale prospettiva, sia in ambito gentilizio che civico l’araldica è volta a categorizzare e ad esprimersi in relazione con l’universo di cui è parte, e quindi appare molto diversa dalla “soggettivazione” come la intendiamo oggi. Non a caso si è parlato di essa come di un linguaggio specifico di un’epoca, in cui nondimeno affondano le radici dell’Europa moderna: un linguaggio «destinato a estendersi e a persistere, con funzioni e significati necessariamente alterati, anche al di fuori delle società a ordinamento feudale» (ivi), passando attraverso l’elaborazione giuridica che ne farà Bartolo da Sassoferrato (1358) con la laica equiparazione al nomen, in un periodo storico in cui andavano sfumando i significati legati al simbolismo ideologico delle origini.
Il XIII secolo segna l’apogeo dello sviluppo urbano, che muta l’uomo medievale ampliando i suoi riferimenti ed infittendo la sua rete sociale: in una parola, facendone un cittadino (Le Goff, 1988). Va opportunamente notato che l’inurbamento, trasformando le relazioni dell’uomo con il suo ambiente, con la sua società e con le rappresentazioni che faceva di se stesso, del mondo, del tempo e dello spazio, influisce anche sulle strutture dell’immaginario, in cui porta nuove metafore, immagini, ideologie, sogni e credenze, che aprono la strada al Rinascimento ed all’età moderna. È ancora Le Goff a ricordare come
il successo di un tema nell’immaginario di una società è legato all’accordo fra la sua collocazione nelle eredità culturali e mentali e la sua pertinenza nel contesto contemporaneo... Il successo è tanto più grande quando le immagini letterarie o mentali sono accompagnate da rappresentazioni figurate. (1985, p. 40).
Nell’affermazione delle entità comunali così come si andavano contrapponendo al regime feudale ed al potere imperiale, anche la sfragistica assume un importante significato politico, seguendo però una strada per certi versi autonoma, che nella prima fase renderà sovente i soggetti dei sigilli diversi dagli emblemi in uso. Non è possibile ovviamente indicarne una data di nascita certa per l’utilizzo da parte dei Comuni: alcuni studi lo fanno discendere da una situazione di diritto connessa con lo stato giuridico particolare dell’area italiana centro-settentrionale, situazione di cui lo stemma è sempre un segnale. Da questo punto di vista, un termine post quempotrebbe essere quello della Pace di Costanza (1183), che darebbe in parte anche conto della peculiarità comunale rispetto alle città tedesche, che per lungo tempo non furono titolari della dignità di stemma, ma portarono quello dell’Impero o del signore territoriale.
Nel nord Italia ed in Toscana le comunità ebbero invece modo di rivendicare de jure il proprio ruolo e la propria libertas, in una parola la propria autonomia: quindi lo stemma proclamerebbe ad un tempo un’espressione di volontà sovrana, un’affermazione di autorità e provenienza (in ambito comunicativo sovrapponendosi quindi al sigillo, più curiale, che nel tempo assumerà anche elementi araldici), ed infine un segno dei rapporti giuridici intercorrenti fra la comunità e l’esterno, sia esso rappresentato dal contado, dai signori feudali o da altri Comuni (Dupré Theseider, 1978). Tuttavia l’araldica matura delle città autonome, che si suole quindi definire “civica”, si afferma dopo quella gentilizia, trovando il suo massimo impulso tra i secoli XIV e XVI: un rangetemporale in cui si situano anche le redazioni di blasonari, armoriali e stemmari d’enorme importanza storico-artistica come il Trivulziano, l’Archinto e più tardivamente il Cremosano. Siamo qui in pieno Quattrocento ed oltre: da ciò deriva un ulteriore problema per la ricerca appoggiata su questi antichi documenti. Favini e Savorelli (2006) avvertono che nell’Italia settentrionale il movimento comunale è stato più precoce ed intenso rispetto ad altre aree, ma le testimonianze attendibili sono assai più tarde e relative a «periodi in cui la situazione politica era radicalmente diversa da quella degli esordi». Inoltre, soprattutto in Toscana, non era infrequente «la presenza simultanea o lo sviluppo diacronico di una pluralità di insegne» riflettenti il dualismo istituzionale fra Comune e Popolo, sconosciuto altrove.
Al di là delle sue vicende estemporanee, comunque, lo stemma eredita la funzione di riconoscimento e di appartenenza di genesi bellica, ampliandosi fino a divenire signum di una comunità e di uno specifico jus: come dice il Foppoli, «un fondamentale codice simbolico» giocato sul piano iconografico, e quindi di grande forza. Una forza di una longevità e suggestione sorprendente: oggi l’araldica, che sopravvive anche in molte insospettabili manifestazioni della vita moderna, è stata spogliata da quei vezzi snobistici che già denunciava il Guerrini (1958, 1984) ed ha statuto di vera e propria scienza del segno: quindi disciplina documentaria e non più sussidiaria della ricerca storica.
Con queste avvertenze, si comprende come uno stemma (o, come si diceva anticamente, un’arme) condensi in sé quindi un universo temporale stratificato, sia un prodotto storico e culturale di assoluto pregio, che richiede di essere indagato con scrupolo filologico e nel rispetto di una sintassi specifica, anch’essa formatasi nel tempo e perciò doppiamente significativa: è il campo d’azione dell’araldica, in cui smalti, partizioni, forme e figure nei loro reciproci rapporti rappresentano quella che per la comunicazione è la costruzione del periodo. Uno stemma ci parla quindi solo se se ne decodifica il linguaggio: diversamente, quello che un tempo era inequivocabilmente chiaro anche per la popolazione analfabeta che ne riconosceva la referenzialità e la densità simbolica, resta al più ed alquanto immeritatamente una semplice curiosità estemporanea per noi, figli tecnologici del XXI secolo, paradossalmente inclini al linguaggio dell’immagine, ma lontanissimi da quello dell’immaginario medievale. Un immaginario che agiva peraltro in modo diffusivo e prepotente, se addirittura alla metà del Trecento in una Bologna acquistata da Giovanni Visconti si temeva più per lo sfregio del simbolo attestante l’appartenenza guelfa e popolare che non per la sottomissione ad un potere esterno[8].
Dal punto di vista strutturale, molte insegne furono assunte direttamente dai centri maggiori (il Carroccio lombardo si dotò di un emblema invertendo i colori dell’odiato potere imperiale; altri centri richiamarono monumenti significativi del territorio o, nel corso del tempo, addirittura vedute paesistiche), magari assumendo elementi parlanti, secondo uno schema paraetimologico tutt’altro che raro nelle nostre contrade e comunissimo soprattutto in area germanica; altre giunsero da conferimenti sovrani (come gigli guelfi o aquile, spesso assunte “in capo”), o da elargizioni di grandi città a realtà minori (Firenze assegnò a Fiorenzuola giglio e croce dimezzati); altre ancora nacquero in particolari frangenti per siglare alleanze o soggezioni o entrate in una particolare sfera d’influenza (inquartature o elementi iconografici delle grandi fazioni, le chiavi papali, il leone della Serenissima, la vipera viscontea, ...).
Poteva anche capitare – e capitò soprattutto fra Ottocento e Novecento – che piccoli centri soggetti a signori feudali ne assumessero le insegne, «talvolta con varianti: così il medesimo simbolo fu contrassegno del casato, del feudo e del municipio, e si ripeté, in scala minore, ciò che aveva luogo nei territori delle signorie e dei principati» (Bascapè-Del Piazzo, 1993): ciò è attestato per tutta la Lombardia in numerose località soggette a potentati locali, talvolta per sussunzione, talvolta per vera e propria sostituzione in età post-comunale.
Peraltro, lungi dall’essere un elemento cristallizzato una volta per tutte, lo stemma è un prodotto storico e come tale non può essere inossidabile alle vicende del tempo: diversamente da quanto comunemente ritenuto, gli organismi sociali spesso variarono o addirittura mutarono le proprie armi nel corso dei secoli e ciò non deve stupire se si consideri la sua genesi eminentemente progettuale: esso è infatti una sorta di manifesto che riflette ed identifica determinate situazioni politiche, con lo scopo di rendere immediatamente evidente la geografia del potere e la rete delle alleanze. L’araldica offre numerosi esempi in questo senso: dalla damnatio memoriaecon la distruzione o la mutilazione delle immagini, al progressivo subentro di insegne diverse, oppure spesso alla soluzione più intrigante e dichiarativa dell’inversione degli smalti, fino all’assunzione in capo di elementi diversi[9]. E comunque la varietà e la difformità si presentano spesso anche in epoca antica, talvolta per incompetenza, imperizia o travisamento delle fonti: per non citare che un esempio, la Podesteria del Montale si fregia di quattro differenti versioni del medesimo stemma, tutte contenute in manoscritti originali del XVII secolo[10].
È evidente poi come ogni epoca abbia reinterpretato questa complessa figurazione, talvolta pesantemente, talvolta con sottili variazioni che costituiscono comunque un corpus iconografico non disprezzabile; il dinamismo colpì anche molte insegne familiari per vicende matrimoniali, distinzioni di ceppo, brisure[11], ecc. Sempre possibile pure che cambiamenti dovuti a scarsa consapevolezza finissero per istituzionalizzarsi per la loro consonanza ai gusti ed alle mode del tempo. Va poi rilevata una mutazione ope legissubentrata con lo Stato Italiano, che intese uniformare in maniera centralizzata le diverse realtà politico-araldiche preunitarie, comprese quelle non riferibili allo statusdi nobiltà: la Serenissima non aveva inficiato le libere determinazione dei Comuni ed a Milano il severo ordinamento teresiano del 1750 riconosceva l’uso di stemmi anche a cittadini[12], purché privi di ornamenti e timbrature[13].
Orbene, la Consulta Araldica istituita da Casa Savoia fissò rigidamente il diritto nobiliare e, in ambito civico, la sintassi grafica, imponendo l’adozione di standard che molti oggi considerano severamente quale aggiunta tardiva e burocratizzante, ispirata al gusto statalistico ottocentesco. In questa sede, a margine delle vicende dello stemma di Quinzano, vengono solo menzionate variazioni che ebbero vita breve, in particolare quelle napoleoniche del Regno d’Italia connesse al sistema araldico ideato dal Bonaparte e vigenti per il brevissimo periodo del suo dominio (1805-1814), nonché quelle dell’iconografia fascista col suo tripudio di fasci littori.
Come si argomenterà più diffusamente in seguito, va infine rammentato che gli emblemi raccontano dell’epoca, dei valori e del sentire del tempo in cui vennero creati o in cui se ne consolidò l’uso, rimandando anche ad una diversa concezione dell’insegna in sé, e sottolineando che quasi la metà degli stemmi civici bresciani sono di creazione contemporanea, ascrivibili al primo Novecento: quindi quelli
moderni perdono il ruolo di “segni” tipici dell’araldica storica, talvolta semplici campiture geometriche ed astratte e vogliono simboleggiare qualcosa. Se escludiamo qualche emblema geometrico adottato perché di un’antica famiglia locale, tutti gli altri stemmi esprimono un messaggio simbolico più o meno evidente richiamando la storia, l’arte, l’ambiente naturale, l’industria, l’agricoltura, etc., una comunicazione che talvolta può apparire ridondante, sommandosi in un’unica insegna vari di questi elementi compositivi. È evidente allora la radicale differenza della mentalità moderna rispetto a quella dell’uomo del medioevo, che si sentiva rappresentato anche da uno stemma “privo di significato”, posto come semplice segno. Oggi l’arme comunale è avvertita come messaggio simbolico-visivo con allusioni decifrabili e leggibili, talvolta volutamente ridondanti. Si dovrà inoltre considerare come questi stemmi sono stati creati con la collaborazione, spesso assai invadente e non sempre qualitativamente ottimale – perché basata di frequente su generici dati enciclopedici – di “studi araldici” commerciali [...] sino agli anni ‘70, quando una maggiore consapevolezza dell’araldica portò i comuni ad avvalersi più spesso di qualificati storici ed eruditi locali. (Foppoli, 2013, pp. 19-20).
Per quanto riguarda l’iconografia dell’araldica civica, gli stemmi possono contenere semplici partizioni geometriche o figure, spesso in composizioni più complesse. In area bresciana[14] le prime sono rare, rappresentate dalle balzane di Orzinuovi ed Iseo, da quella corrotta di Bienno, e dallo scaglione[15] ormai perduto di Ghedi. Per quanto riguarda le figure, una delle sistematizzazioni possibili le suddivide per categorie: il discorso ovviamente è generalizzabile, ma per restare nell’area della nostra provincia, alcuni centri utilizzano le insegne dei signori che li avevano amministrati (eventualmente con brisure o inquartamenti), secondo il principio per cui in origine lo stemma apparteneva al feudo e non alla famiglia (Zug Tucci, 1978): è il caso, ad esempio, di Poncarale, che addirittura ricorda insieme i Poncarali ed i Mori, e di Sonico, che riprende l’elegante arma dei Federici. Altri comuni assumono elementi eminenti del territorio come rocche e castelli, in grado di veicolare anche un messaggio di potenza militare e importanza strategica[16]: pratica comune nelle terre di sorveglianza confinaria come Quinzano o Palazzolo, e nei centri custodi di una bellicosa tradizione autonomistica come Lozio. Talvolta le rocche vengono inquadrate in una più ampia veduta paesaggistica, che include anche un ricco campionario di fiumi, montagne, alpeggi, anse lacustri: si tratta di stemmi quasi sempre recenti o recentissimi, spesso con una spiccata connotazione turistica che li avvicina al marchio (Monno, Montisola, Angolo Terme). Va comunque segnalato che non si tratta di una regola assoluta: alcuni centri utilizzano raffigurazioni solo apparentemente moderne, ma in realtà molto risalenti, derivanti da concessioni sovrane o da particolarità locali (per esempio Acquafredda e Visano). Abbastanza rari in territorio bresciano sono gli stemmi agiografici di santi e patroni (che troviamo comunque in Pavone Mella, Niardo, Corteno Golgi e Paspardo), mentre si rileva una abbastanza nutrita schiera di insegne legate al mondo del lavoro ed ai prodotti della terra (Rudiano, Travagliato, Torbole Casaglia, Mairano; talvolta si tratta di stemmi recenti prodotti in serie da studi araldici commerciali e volti a esaltare una generica laboriosità delle popolazioni e fertilità delle terre). Qualche centro alza emblemi recanti animali di natura, diversi dal ristretto bestiario araldico fatto di leoni, aquile e grifoni: il cervo è comune per la Valcamonica[17], ma vi sono anche bovini, cani, agnelli e l’orso di Orzivecchi, forse richiamo ad antica fauna locale o alla supposta radice del toponimo. Abbastanza rappresentati gli stemmi parlanti, ovvero quelli che si rifanno alla denominazione del luogo in maniera diretta (come una nave per Nave, un pozzo per Pozzolengo e la mitologica idra per Idro[18]), più o meno allusiva (Soiano porta un mastello di legno, una soianel dialetto locale), oppure attraverso para-etimologie derivanti da pura assonanza fonetica: così Rezzato mostra una figura coronata, popolarmente alludente ad un mitico regnante (Re Zato, appunto) e come per il curioso rebus di Manerbio, che deve la sua probabile fondazione ad un “minervium” (un tempio dedicato a Minerva), ma nel cui stemma appare una mano che afferra un ciuffo d’erba. Anche qui è ben evidente il carattere denotativo e rappresentativo più che simbolico di un codice che in origine parlava veramente a tutti. Diversamente le rappresentazioni recenti tendono ad avvicinarsi al marchio, con risultati abbastanza ridondanti e infelici, o ad ignorare inspiegabilmente emergenze antiche e ben documentate[19].
Taluni centri, infine, equivocano figurazioni presenti nei propri archivi, ma estranee al territorio e all’araldica civica, assumendo magari più o meno consapevolmente come insegne i sigilli burocratici dell’effimera Repubblica Italiana napoleonica (Isorella, Bione, Mura e Capo di Ponte).
Al di là della varietà delle soluzioni, tutti i Comuni sono stati costretti a fare i conti con la burocrazia dell’apparato accentratore sabaudo, con l’obbligo di far riconoscere il proprio stemma storico o di proporne uno ex novo sub concessione, con esiti talora tragicomici, come accadde a Brescia, che nell’arco di pochi anni si era trovata a dover richiedere ben tre diverse concessioni: a Napoleone, all’Impero asburgico e al Regno d’Italia. Erede ultimo di questa impostazione è il DPCM 28 gennaio 2011 Competenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di onorificenze pontificie e araldica pubblica e semplificazione del linguaggio normativo, che reitera tra l’altro l’obbligo di forme e fogge a cui attenersi. Tuttavia, è stato giustamente rammentato dal Foppoli (2013) che tali disposizioni mal si raccordano con il disposto del TUEL DLgs 18 agosto 2000, n. 267 (norma fra l’altro superiore nella gerarchia delle leggi), nella parte in cui assegna allo Statuto comunale la titolarità a stabilire la propria simbologia istituzionale. Tale peraltro appare l’orientamento giurisprudenziale corrente: su questo aspetto ritorneremo infra.
Note storiche sullo stemma civico di Quinzano
Fra i Comuni della provincia di Brescia gli stemmi anteriori al 1800 sono circa un terzo di quelli in uso: anche quello del Comune di Quinzano (che assunse la definizione “d’Oglio” solo nel 1862) può vantare agganci storici pre-ottocenteschi, come sarà argomentato successivamente[20]. Una prima testimonianza d’interesse potrebbe essere quella riportata dallo Zanelli (1892) sulle modificazioni degli Statuti cittadini di Brescia nel 1385 in riferimento alla presenza istituzionale e al dono di cera per la Festa dell’Assunta, normata fin dal 1273 (Menant, 1993):
si decretò allora che i comuni si facessero rappresentare all’oblazione o dai loro consoli o da alcuno dei loro vicini; che vi intervenissero anche i Nobiles Briscianaee tutti offrissero quella quantità di cera che fosse loro tassata dall’Abbate e dagli Anziani: di più i Comuni delle terre di Brescia aventi fortilizi furono obbligati a portare alla festa pallia vel drapos ad formam paliorum, super quibus habeant schuterzolas (?) cum armis suis, sotto minaccia di quelle pene che il Podestà e gli Anziani avrebbero determinato. Da questi ordinamenti parmi si possa subito trarre una conclusione importante; ed è, che anche a Brescia, come in altre città, la cerimonia dell’oblazione della cera alla Vergine non avea solamente un carattere religioso; essa avea anche un significato politico e serviva di pretesto o d’occasione alla città per richiedere dai comuni del distretto un omaggio di sudditanza. È bensì vero che già al tempo della redazione degli Statuti il vero Comune bresciano o era già morto o stava per essere assorbito dai signori; ma ciò non toglie che la città esercitasse sempre sui comuni del territorio bresciano una certa supremazia, che per larga parte continuò anche quando Brescia passò sotto il dominio veneto. (Zanelli, 1892, p. 3).
A quell’epoca Quinzano, ormai da un paio di secoli feudo dei Martinengo, doveva essere un borgo fortificato (come evidenzia la carta degli Estimi Malatestiani del 1406-1416[21], che lo mostra cinto da mura con sei torri e un torrione centrale), e quindi soggetto all’obbligo di presenziare con tanto di insegne: l’esistenza di un castello o quantomeno di opere munite già in epoca alto-medievale pare suggerita dal Pizzoni, che rileva
alla venuta poi di Ottone Imperatore primo di questo nome in Italia vi condusse molti Nobili Allemani fra’ quali furno i primi della famiglia Martinenga, a quali acciò fussero fedeli all’Imperio donò sedeci Castelli nel bresciano, e l’investì di essi come appare nel loro privilegio datto in Verona il 6 ottob. 953: quali sono i seguenti: Quinzano, Oriano, Sangervaso, Calvisano, Navi, Isorella, Bigolio (= Orzivecchi), Collogni, Lenno, Trobiado, Calino, Nivolini, Cimbergo, Autogni, Valegno. (Pizzoni, 1640, p. 11).
Il cosiddetto “Diploma di Ottone”, degno di fede seppure apocrifo[22], sancisce infatti
dedimus praefato Tebaldo fideli nostro, ex nostro imperiali jure illi in jus et proprietatem Dalegnum cum omni eius Curia et pertinentia et decima in Viviano [...] et curte totius plebatus [de Navis] cum decima medietate plebatus Bucolii (= Bigolio) et medietatem Quinzani cum decima et castellania,
da cui si dovrebbe avvalorare l’indicazione dei “castelli”[23]del Pizzoni. Per inciso, va notato che nel sec. XI i Martinengo già dovevano essere conti (perlomeno nel bergamasco, da cui erano originari) e disporre di ingenti ricchezze[24], anche se non tutti gli storici sono d’accordo, ascrivendone la nobiltà a tempi successivi all’investitura del vescovo Raimondo (1158); di certo avevano almeno rango di capitanei, ovvero vassalli di secondo ordine. Comunque, già nel 1183 un Oprando figura fra i firmatari della Pace di Costanza con il Barbarossa per il Comune di Brescia, e quindi sicuramente dotato di una qualche forma di autorità superiore. A partire dal XII secolo, la famiglia è già bresciana a pieno titolo e più tardi alcuni rami di questi conti rurali verranno ascritti al patriziato veneto ed altri a quello milanese[25].
I Martinengo bresciani verso la fine del Trecento dominano praticamente su tutta la bassa orientale da Quinzano a Urago d’Oglio, e intrattengono consolidati e stretti rapporti politico-commerciali con il Vescovo e il Comune di Brescia. Le loro vicende si intrecceranno con quelle del Comune di Quinzano per molti secoli, ricevendo molte riconferme di privilegi, esenzioni e antichi diritti da parte dei vari padroni che si successero. L’ultima attestazione di rilievo arriva al dominio asburgico sul Lombardo-Veneto: nell’amministrazione comunale del 1815 figurano i possidenti nobiliLuigi Martinengo delle Palle e Nestore Martinengo da Barco, mentre nel 1820 è Primo Deputato del Comune il conte Luigi. Per quanto riguarda lo stemma, il primitivo e fondamentale fu l’aquila rossa in campo d’oro, che la leggenda familiare affermava donata dall’Imperatore Ottone I al primo (e mitico, non essendovi attestazioni storiche) Tebaldo. L’aquila è insegna araldica ordinaria per famiglie che abbiano avuto privilegi o rapporti con l’Impero, ma nel nostro caso non è possibile documentarne l’uso prima del XV secolo.
Un ulteriore indizio su Quinzano come castrum, ovvero come borgo fortificato, giunge dalla concessione del vescovo Raimondo del 1158 ai «fratres de Martinengo» Pietro e Lanfranco: a completamento dei loro già vasti possedimenti in loco, con quest’atto vengono infeudati[26] di una serie di terre difficilmente gestibili dal lontano potere cittadino. La loro localizzazione sui confini con correlata necessità di difesa fa logicamente propendere per una munizione muraria, o quantomeno per fortificazioni in un’epoca particolarmente turbolenta soggetta a scorrerie e passaggi di armati, per di più in presenza di un forte marcatore territoriale e commerciale come il fiume. Menant (1993) ascrive Quinzano ai “borghi franchi” dotati di particolari privilegi ed esenzioni in cambio di prestazioni militari e corvées fin dal XII secolo[27].
Infine – ma siamo ormai molto avanti nel tempo – un affresco del secondo Cinquecento, oggi perduto e di cui esiste solo una sbiadita fotografia, ci mostra abbastanza fedelmente l’aspetto del borgo fortificato in età rinascimentale visto dalla porta settentrionale di Mercato.
Questa digressione è intesa a reperire informazioni che possano avvalorare l’ipotesi non di pura fantasia della presenza di insegne comunali fin dall’ultimo scorcio del XIV secolo, e probabilmente non di primissima adozione, se i documenti le danno per scontate. D’altra parte, i dati indiziari in nostro possesso sono importanti pure dal punto di vista iconografico, anche se sfortunatamente non suffragabili con certezza: nell’attuale stemma civico campeggiano due figure, l’aquila e la torre, delle quali la seconda potrebbe essere la più antica e persino in un’altra foggia. Ne parleremo a breve.
La prima attestazione iconografica dell’arma di Quinzano si ha nello Stemmario Trivulziano(1452 ca), il più bello stemmario tardo medievale italiano, che costituisce la prima evidenza in assoluto di alcune insegne civiche. Riprendendo quanto anticipato, va ricordato che gli stemmari costituiscono una fonte preziosa, ma non sempre del tutto attendibile, poiché rispondenti a finalità diverse dalle attuali, oppure poiché spesso permeabili a realizzazioni di fantasia o imprecise con le quali i compilatori supplivano alla mancanza di informazioni, soprattutto per territori geograficamente lontani. Nel nostro caso, tuttavia, l’artista del Trivulziano, che opera in ambiente milanese e in piena signoria viscontea o sforzesca, dimostra di ben conoscere le insegne che va collazionando: è accreditata l’ipotesi di una sua assidua frequentazione della cancelleria ducale, ove non mancavano documenti ed atti suggellati con stemmi e sigilli, e ciò anche per i territori (fra cui Brescia e la sua provincia) che i Visconti avevano perso nel confronto con la Serenissima un paio di decenni prima.
Lo stemma argenteo con castello turrito di rosso sormontato dal capo d’oro con la nera aquila imperiale (così blasona il Foppoli, 2013) viene attribuito al Comune, anche se il Monti della Corte lo assegna alla nobile famiglia dei Quinzani[28]: opinione scarsamente condivisa, in quanto il rango di questa famiglia non era adeguato né a quelle riportate nel Trivulziano, che raccoglie solo stirpi di elevato status nobiliare, e neppure a quello di altre casate che hanno dato il loro stemma al territorio che governavano o influenzavano.
Da Pandolfo Nassino sappiamo che nella prima metà del Cinquecento i Quinzani facevano parte della nobiltà cittadina di Brescia; il predetto li descrive in una striminzita riga dicendo che «veneno da Quinzano, terra bressana»[29], un’indicazione che è comune a molte altre progenie che trovano corrispondenza topografica (per non citarne che alcune: Bargnani, Gavardi, Gieruli, Isei, Leni, Lodi, Lechi, Mantuani, gli stessi Martinenghi, Manerba, Nigolini, Offlagi, Payton, Poncarali, Porzani, Rudiani, Sancti Gervasi, Sanzini, Sayani, Sancti Zeni, Scanzi, Soldi, Trenzani, Ustiani, Urcei), e per numerose delle quali l’autore riporta il cognome originale, poi soppiantato dal toponimo: un po’ come avvenne per la famiglia locale dei Gandini, «che veneno da Gandino, loco bergamasco; lo cognome fo di Bizoni».
Riguardo ai Quinzani, ciò ovviamente non prova nulla in relazione all’acquisizione del cognomen dal luogo di provenienza e non viceversa; tuttavia, la questione è da leggere mettendo in correlazione tutti gli elementi indiziari in nostro possesso, elementi che suggeriscono la primogenitura dello stemma civico rispetto a quello familiare. Il Savorelli, fra l’altro, nel suo saggio introduttivo all’edizione moderna del Codice nota che
i nomi delle città sono siglati “Comunitas”. In seguito, negli stemmi di città mescolati a quelli di famiglie, questa dicitura cade e si verificano due casi distinti: la maggior parte dei nomi è accompagnata dalla sigla “terra”, aggiunta sopra o in margine; altri non ne recano alcuna. Il termine “terra” veniva solitamente usato in Italia per designare i centri urbani che non erano sede di diocesi [...] La preposizione o prefisso che precede il nome della città (nella grafia maiuscola) è oscillante: per lo più è usata “da” (10 volte); “de” e “di” appaiono più sporadicamente. Il prefisso “da” è comunque quello più frequentemente usato per i toponimi. (Savorelli, 2000).
Rientra nell’approssimativa storiografia secentesca, basata su etimologie di dubbio valore e quindi destituita da ogni fondamento, la notizia del Pizzoni sulla derivazione dell’arma civica o di parte di essa da un’insegna della famiglia Quinzani, casata che sarebbe la diretta emanazione dei Quinzi latini fondatori del sito, il quale sostiene che gli abitanti, prima dispersi in diverse contrade,
Lucius Quintius Decurio li riducesse insieme uniti facendo fabricare il Castello dove hora si trova, concedendoli[tc4] la sua arma ch’era l’Aquila negra in campo Giallo, come si vede in un libro scritto a mano da Sebastiano Planerio già Cancelliero della Communità, nel quale loco dice che la sua famiglia possedesse questo carico per trecento anni avanti. (1640, p. 11).
L’aquila nera in campo giallo è in realtà il capo dell’impero (cfr. infra), che la stessa famiglia Quinzani nel Cinquecento portava nel suo emblema:
Stemma della famiglia Quinzani, che ricalca quello antico del Trivulziano: d’argento al castello di rosso, aperto del campo, torricellato di due pezzi; al capo d’oro, all’aquila al volo piegato di nero. (Monti della Corte, 1974).
Relativamente al legittimo sospetto che l’aquila assunta dalla civica quinzanese possa essere invece quella familiare dei potenti signori del luogo si ritiene di dover dare risposta negativa, per le ragioni che saranno addotte nella parte specificatamente dedicata all’araldica. Per quanto non fosse infrequente l’utilizzo di uno stemma signorile da parte comunale (soprattutto per i centri minori del contado, come non pare essere Quinzano al tempo), va pure ricordato che
vi sono famiglie potentissime come i Martinengo che, valga come piccolissimo esempio, hanno avuto al loro interno podestà per quattro anni consecutivi (1214-1218) o, cosa ben più “storica”, uno dei sei rappresentanti di Brescia al trattato di pace di Costanza del 1183 (Valentini, p. 28) senza per questo lasciare traccia di [...] egemonie araldiche. (Bianchetti, 2011, p. 48).
Le insegne quinzanesi appaiono nuovamente nel primo libro dell’Insignia Familiarum, nota anche come Stemmario Archinto dal nome del possessore secentesco, conservato presso la Biblioteca Reale di Torino (Storia Italiana, 138): si tratta di un armoriale suddiviso in due libri, di cui quello, più antico e curato, di nostro interesse dovrebbe essere stato redatto verso il 1560.
Il manoscritto cinquecentesco è in larga parte tributario del Trivulziano e lo stemma quinzanese non fa eccezione, apparendo assai simile per foggia e composizione all’esemplare del secolo precedente. Si notano solo piccole variazioni presumibilmente dovute alla mano del copista: con un tratto più definito, tre merlature ora indubitabilmente guelfe anziché quattro sulle mura castellane, e una maggiore possanza delle torricelle.
Ritornando alle fonti locali, registriamo un sostanziale silenzio fino al Cinquecento. Va rammentato che le vicende di area vasta hanno ovviamente importanti ricadute anche sugli archivi di un piccolo centro della bassa pianura padana, che sono monchi di una serie di atti inopinatamente distrutti all’indomani del 1426, che segna il passaggio del bresciano dal Ducato di Milano alla Serenissima. Se ne lamenterà lo storico Pizzoni, privato di fonti importanti:
i nostri antichi pensando fussero finiti i travagli, e che per l’avvenire dovessero vivere con tranquillità, fecero grandissime allegrezze de fuochi con che abbruciarono le scritture vecchie per non haver occasione di ricordarsi delle schiaghure passate per loro, & mia doppia fatica, che nel voler scrivere quest’Istoria mi bisognai mendicare ogni cosa, e molte cose degne di questo restano sepolte nell’oblivione. (1640, p. 11).
Tuttavia, di qualcosa il Pizzoni doveva pur disporre, se alcune indicazioni sulle insegne comunali ci giungono proprio da lui. Infatti nella sua Historia del 1640 ci informa che
mandorno a Quinzano Vicario il dì 4 Novembre [1515] Constantino Ducco con auttorità di giudicare tutte le cause sommarie Civili e Criminali, eccetto in caso di morte, e che durasse fin a Brescia recuperata, ritirandosi L’Essercito Venetiano unito con il Francese a Caionvico; questo Vicario fu quello che ornò la loggia dell’alloggiamento suo e del pubblico, e feceno altri ornamenti in altri luochi publici del Castello, insieme con l’armi di Santo Marco, della Città di Brescia, e di Quinzano, & la sua propria, pitture che fino a poco fa si vedevano... (1640, p. 23).
Il riferimento è probabilmente al pavese, ovvero a uno scudo quadrato o rettangolare di una consolidata triade costituita dagli emblemi istituzionali dei Magistrato, della Signoria (nel nostro caso alla Serenissima si affianca la circoscrizione cittadina) e del Comune: una consuetudine attestata anche più anticamente su palazzi pubblici e, per restare in ambito geograficamente a noi prossimo, da un affresco del Broletto[30]. Successivamente, sempre il Pizzoni segnala
L’anno 1541 fu fatta una campana, e posta sopra la Torre di Santo Faustino, nella quale furno impresse le seguenti parole: “Christus vincit. Christus regnat, Christus imperat, Chruistus ab omni malo nos defendat”, con l’arme della Communità, Immagine di Nostra. Signora, di Santo Faustino, e di Santo Iovita. (1640, p. 27).
Solo un paio di decenni dopo l’evento si ripete:
L’anno 1564 fu fatta un’altra campana, e posta sopra la torre di Santo Faustino, con le parole: “Christus fugite partes adverse, vicit leo, de tribu iuda, radix David, alleluia”, con immagine di Maria Vergine, Crucifisso, Santo Pietro, e Santo Paulo, e l’arma di Quinzano (1640, p. 31).
Purtroppo lo storico non dà alcuna descrizione dello stemma, probabilmente ritenendola ridondante in quanto noto a tutti al tempo, ma per noi sarebbe stato importante leggerla[31]. Praticamente tutte le campane recavano incisi marchi e bolli che ne attestavano orgogliosamente la fabbrica e i privati o gli enti ordinanti, poiché, al pari delle insegne, costituivano un significante particolarmente forte per l’uomo medievale. La marcatura con lo stemma civico e la committenza di parte pubblica sono spiegabili anche per le funzioni da esse assunte, che andavano al di là del mero aspetto religioso e si qualificavano a pieno titolo quale ufficio civico. Le campane erano una vox polisemica, uno strumento comunicativo del potere che convocava a raccolta o siglava i momenti salienti della vita comunitaria, ma pure un segnale di chiamata alle armi o un avviso di imminente pericolo. Al contempo memoria della comunità e vigilanti attente, le campane scontavano spesso questi oneri onorevoli con la distruzione da parte degli assedianti, o condividevano con le bandiere il rituale infamante del ribaltamento delle insegne destinato ai vinti (Bernazzoni, 2010): costellazioni anch’esse di quell’universo segnico tramandato dal Medioevo, le cui sfumature sono irrimediabilmente perdute.
Considerando quella del Trivulziano in modo conservativamente dubitativo, la prima fonte iconografica certa è rappresentata dalla pala di Sant’Anna (post 1630) nella chiesa parrocchiale, vero e proprio ex voto civico per una delle numerose epidemie di peste che funestarono il territorio quinzanese. Qui non sussistono dubbi che lo stemma rappresentato sul margine inferiore della tela fra Sant’Anna, la Beata Stefana Quinzani e la realistica rappresentazione del paese, sia proprio quello del Comune, che apertamente dichiara la committenza dell’opera:
VOTVM CO(mun)ITATIS
QVINTIANI
CAUSA PESTIS
ANNO 1630 DIE 24
LVLY
GRATIA OBTENTA
EST
Le insegne civiche riappaiono nel 1673 in un altro stemmario, il Codice Cremosanoche, tra gli oltre ottomila emblemi di area lombarda, per Quinzano riporta figurazione simile a quella del Trivulziano, più antico di due secoli e da cui probabilmente in parte dipende, scorciando però la cinta muraria e facendo assomigliare il castello quasi a un mastio o a un torrione: d’argento al castello di rosso, torricellato di due pezzi, aperto e finestrato del campo; al capo d’oro, all’aquila al volo abbassato di nero. Stavolta l’attribuzione al Comune è certa.
Al primo Settecento appartiene la seconda evidenza iconografica locale, anche stavolta in un ex voto: si tratta del quadro di Santa Caterina d’Alessandria che protegge il paese da un’invasione militare (1716 ca), conservato presso la chiesa di San Giuseppe. Nell’angolo inferiore destro compare uno stemma abbastanza sommario del Comune, quasi certamente una libera elaborazione dell’ignoto pittore.
Un doveroso accenno merita la bissola (urna per votazioni) del sec. XVI conservata nel palazzo comunale e recante la stampiglia «COMVNI(t)AS QVINTI(a)NI», sovrastata da un tondo che pare recare al suo interno un’insegna araldica, secondo un uso decorativo attestato anche in area toscana su oggetti pubblici e sulle borse di cuoio o i vassoi per la raccolta dei voti (Favini Savorelli, 2006). Il tondo in vernice nero-bluastra racchiude figure delineate con un sottile tratto nero, forse evanescenti all’origine e tanto più oggi, ma certo assimilabili a quelle dello stemma civico: l’aquila ad ali aperte sostenuta da una struttura rettangolare avente alla base un’ampia apertura a volta, che certo è il castello. Purtroppo non è possibile allo stato attuale effettuare una datazione precisa dell’oggetto, genericamente ascritto al XVI secolo: potrebbe comunque essere il più antico che riporti l’insegna civica.
Comunque, a partire dal 1870 inizia ad apparire nei documenti ufficiali del Comune una sorta di prototipo privo di scudo, recante una torre merlata ancora vagamente riconducibile all’originale, su cui poggia un’aquila dalle fattezze sommarie e ben poco araldica. L’emblema venne poi replicato in vari modi, con leggere variazioni tipografiche.
Nel 1901 il Sindaco risponde alla richiesta di un altro ente, dichiarando esplicitamente di non conoscere l’origine dello stemma comunale[32]. Tuttavia, nel primo scorcio del Novecento si assiste a un interesse al reperimento di indicazioni suffragate da documentazione storica, interesse dovuto alle sollecitazioni del Governo centrale affinché i Comuni si dotassero di proprie insegne evitando l’utilizzo di quelle sabaude, come poi espressamente stabilito dal Regolamento tecnico araldico del 1905.
Il 17 ottobre 1926 il Podestà chiede informazioni al prof. Vittorio Brunelli su elementi costitutivi dello stemma, forse perché interessato a una sua realizzazione, come potrebbe evincersi dal fatto che l’ente utilizzava un semplice e puramente testuale timbro ellittico.
17 Ottobre
All’Egreg. Sig. Professore VITTORIO BRUNELLI
Via Alessandro MONTI N° 2 - BRESCIA
Mi rivolgo alla ben nota cortesia della S.V. affinchè, se sarà possibile voglia compiacersi interessare e poscia comunicare i colori dello stemma del Comune di Quinzano d’Oglio e su quale sfondo campeggia il medesimo, nonchè il “motto” che suppongo scritto sullo stemma.
Mi sono permesso di importunarLa supponendo che V.S. sia in grado, anche per ragioni di conoscenze e relazioni, di dare indicazioni al riguardo.
Voglia pertanto scusarmi del disturbo, ed in attesa di cotte riscontro, coi sensi della massima stima e alta considerazione mi professo della S.V
devotissimo
PODESTÀ
A stretto giro di posta il Brunelli comunica di aver sottoposto la questione allo storico mons. Guerrini, allora bibliotecario queriniano più volte consultato dai Comuni per analoghe vicende, proponendo comunque di investigare su qualche indicazione
da affresco o quadro, nel quale si veda, sia pure in parte, lo stemma di Quinzano. Il Comune di Orzinuovi, per esempio, ha fissato i colori del suo stemma accettando quelli del Bagnadore in un suo quadro votivo, nel quale lo stemma del paese si vede in iscorcio sullo scudo di S. Giorgio offerente la fortezza di Orzinuovi alla Vergine.
Un suggerimento di pratico buon senso, che non fu però seguito, se ancora in anni recenti veniva dal Comune invariabilmente replicato a chiunque che non esisteva alcuna attestazione in merito. Il monsignore risponde il 26 ottobre con la lettera che si trascrive integralmente.
Prot. Uff. N. 1372
All’on. Podestà del Comune
di Quinzano d’Oglio.
L’aureo prof. Vittorio Brunelli mi ha comunicato la lettera della S.V. a lui diretta in data 17 Ottobre corr. per conoscere ed eventualmente aver copia dello stemma di codesto Comune.
Questa Biblioteca non ha una raccolta degli stemmi comunali del territorio bresciano; pochi di questi sono entrati nella raccolta degli stemmi nobiliari del Gelmoni, ma fra essi non si trova lo stemma di Quinzano, Anche il Pizzoni, nella sua “Historia di Quinzano” (Brescia, 1640) non fa cenno alcuno dello stemma di codesta borgata; così pure il Nember nelle memorie manoscritte degli Scrittori di Quinzano, che in questa Biblioteca si conservano.
La documentazione dello stemma dovrà essere fatta quindi o nell’archivio comunale o su qualche altra memoria del paese. Bisogna cercare nell’archivio se vi sono registri, libri, carte, timbri o sigilli che portino lo stemma e ricavarne copia; ovvero bisogna cercarlo scolpito o dipinto su qualche altare o chiesa di patronato comunale, o su qualche vecchio edificio del Comune.
Con questi documenti locali si può inoltrare la domanda alla R. COnsulta Araldica di Roma per ottenere o il riconoscimento ufficiale del vecchio stemma oppure una nuova concessione.
Sono spiacente di non poter soddisfare il desiderio della S.V., della quale mi professo con profondo ossequio
Dev.mo Paolo Guerrini Bibl.°
In sostanza dà conto delle infruttuose ricerche presso la Queriniana, sia su stemmari che su manoscritti, in particolare del Nember e del Pizzoni (cosa solo parzialmente vera, poiché in questo autore alcuni accenni vi sono); riprende quindi i buoni consigli che già aveva offerto il Brunelli.
Coevo, o comunque di poco posteriore alla corrispondenza sopra indicata, è il bell’intaglio che riproduce la figura dello stemma civico su un mobile d’ufficio in legno del primo Novecento, conservato nel palazzo comunale.
Proseguendo nel nostro breve excursus, una ricognizione nell’archivio comunale fa ritenere l’insussistenza di stemmi a stampa fino al tardo Ottocento: nulla risulta per il brevissimo Regno d’Italia d’impronta napoleonica, né per la successiva dominazione asburgica del Lombardo Veneto. Con l’Unità vengono utilizzati sigilli a inchiostro e intestazioni recanti le insegne statali sabaude, finché una regia disposizione non ne vieta l’uso. Con circolare n. 1243 del 24 agosto 1928 la Prefettura di Brescia comunica l’autorizzazione per gli enti di fregiarsi delle insegne fasciste inserite o affiancate alle proprie: il Comune di Quinzano opta per la soluzione del capo littorio. Con RD 11 ottobre 1933 il capo littorio viene ufficialmente istituito[33] e ne è d’obbligo l’assunzione per la Pubblica Amministrazione; la disposizione verrà abrogata con Decreto Luogotenenziale 10 dicembre 1944 n. 394, che prescrive il ripristino delle insegne del titolare dello stemma sull’intero campo dello scudo. A Quinzano nel dopoguerra la carta intestata viene prontamente sostituita, mentre restano in uso almeno fino al 1950 i sigilli ad inchiostro recanti il capo littorio con il fascio accuratamente abraso[34].
Si dovrà però attendere fino al secondo dopoguerra per la figurazione oggi in uso nei documenti, figlia probabilmente della realizzazione del vessillo istituzionale: dagli indici delle deliberazioni[35] sappiamo che il 7 maggio 1949 il Consiglio decide in merito al gonfalone comunale e Fappani e Soregaroli (2013) ci informano che in quella stessa seduta viene dato mandato all’Istituto Araldico di Genova di provvedere per il riconoscimento ufficiale dello stemma. Evidentemente non se ne fece nulla, poiché non si trova traccia della questione negli atti degli anni successivi, e neppure nei Fascicoli Comunali dell’Ufficio Araldico presso l’Archivio Centrale dello Stato, consultato telematicamente attraverso i servizi di ricerca messi a disposizione[36].
La questione araldica: quando l’aquila volò sulla torre
Il blasone è la descrizione tecnica di uno stemma secondo i dettami e la sintassi della scienza araldica. Essendo questione da specialisti, devo questo capitolo, i blasoni (e molto altro, di cui si è dato conto nel testo), alla gentilezza di Fabio Bianchetti, che li ha stilati e fatti verificare (ma già avrei scommesso sulla loro correttezza) da Maurizio Carlo Alberto Gorra, fra i maggiori esperti mondiali della materia e Membro Associato dell’AIH (Académie Internationale d’Héraldique)[37]; entrambi poi, con squisita generosità, hanno provveduto anche alla revisione critica dell’intero testo.
Partiamo quindi dalla prima testimonianza di cui siamo in possesso, ovvero la bella rappresentazione dello Stemmario Trivulziano del XV secolo, (ripresa dall’elaborazione grafica moderna dello Stemmario del Foppoli), che attribuiremo al Comune, in linea con l’opinione della maggior parte degli studi critici. Balzano subito all’occhio alcuni importanti aspetti, che riprenderemo più innanzi:
1) il campo (ovvero lo sfondo dello scudo) è d’argento (smalto che in pittura viene reso con il bianco) e su di esso insiste non una torre ma un rosso castello turrito; oltre a ragioni storiche o architettoniche, dopo la pace di Costanza la presenza di mura merlate rimandava a simboli di autonomia, a volte più rispondente a sentimenti d’orgoglio locale che a una situazione reale[38]; sappiamo comunque che Quinzano nel Trecento costituiva uno snodo strategico e perciò ben munito per il capoluogo, armando con Orzinuovi, Chiari, Pontoglio e Palazzolo una potente linea difensiva sull’Oglio contro le incursioni degli storici nemici cremonesi e bergamaschi. Si noti che la fortificazione in rappresentazioni successive, mutò da castello torricellato (apparentemente alla guelfa, più usuale negli stemmi) in torre a due palchi con merlature a coda di rondine o alla ghibellina.
2) La figura dell’aquila ghibellina[39] non ha rapporto con il castello, ma è assunta “in capo”[40].
I capi dell’impero, di Francia, della Santa Sede, ecc. in ambito gentilizio ricordano investiture, uffici, benemerenze, benefici e, più in generale, una scelta di campo: spesso il capo dell’impero indica l’appartenenza alla fazione ghibellina, mentre quello angioino il partito guelfo. Il primo è preponderante in Lombardia, il secondo frequentissimo in Emilia e nell’Italia Centrale. Va rammentato che sovente nell’araldica civica questi segnali politici venivano assunti non tanto per investitura ufficiale, quanto per libera scelta dei Comuni, per rendere da subito evidente una partitanza o un’adesione. Talvolta la contingenza di un singolo momento storico o di un’ondivaga militanza si cristallizzò, magari seguendo altre forme: potrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) essere il caso di Quinzano, tendenzialmente guelfo, come del resto lo erano i Martinengo, ma entrambi innalzanti un’aquila imperiale[41]. Secondo il Bascapè, nelle rappresentazioni di fortilizi l’apparire dei capi, e in particolare di quello dell’aquila, sopra le torri segna l’evolversi del Comune o il declino dell’autonomia civica e l’inizio del dominio di vicari. A questo proposito, va ricordato che, seguendo il destino dell’invadente sorella maggiore Brescia, tra il XIII e il XV secolo, e quindi in poco più dei duecento anni a cavallo fra l’età comunale e il dominio veneto, Quinzano passa di mano parecchie volte. Nel primo scorcio del Quattrocento si trova sotto la signoria dei Visconti, vicari imperiali dal 1395 con concessione d’inquartare l’aquila del Sacro Romano Impero nelle insegne familiari: potrebbe avere assunto allora il capo dell’impero, ma probabilmente non lo sapremo mai. Nell’araldica gentilizia della Valtellina e della Valchiavenna comunque è attestata una sua forte diffusione con l’ingresso di queste terre nei domini viscontei, come manifestazione di fedeltà ai duchi milanesi (Foppoli, 1997); peraltro, si trattava di una comoda partizione mobile, che poteva essere aggiunta o tolta senza modificare troppo l’economia dello scudo, al punto che in una stessa arma di famiglia si rinvengono versioni dotate di capo e versioni che ne sono prive.
Quindi, sostanzialmente, uno dei primi stemmi del Comune dovrebbe essere quello del Trivulziano, primigeniamente col solo castello, o con castello e capo dell’impero. Successivamente, e comunque oltre il XV secolo, si perse la partizione e l’aquila “scese” cimando la struttura architettonica munita che andava mutando dal castello alla torre: forse per gusto personale degli artisti, se già nell’Archinto si nota un restringimento della cortina muraria, forse per quella peculiare disposizione simbolico-sintetica dell’uomo medievale verso la parte per il tutto, forse per le stesse vicende materiali della rocca[42]. Questa, documentata dal 1200, abbattuta e riedificata più volte, ancora visibile circondata dalle fosse nel 1609[43], è ormai consegnata alla memoria e ridotta a poche rovine nel 1640[44], cioè circa nel periodo in cui viene dipinta la Pala di Sant’Anna. In difetto di documenti, si eviterà in ogni caso di assumere per certe o anche solo per probabili congetture che si dispiegano solo nel campo del possibile[45].
Comunque, va tenuto presente che castello e torre sono figure comunissime nel blasone, con significazioni che si sovrappongono[46] e la seconda è assai frequente in Lombardia. Inoltre, su circa duecento stemmi di enti bresciani, l’aquila e la rocca appaiono variamente combinate in ben undici, secondo un’iconografia comune, che però rimanda a contingenze storiche completamente diverse, soprattutto per quelle figure che non siano riferibili alla generica rocca: se per Palazzolo, Urago d’Oglio e Castelcovati, centri di antica potenza ghibellina, l’aquila allude all’Impero, per Roccafranca la questione è già più dubbia, poiché gli smalti potrebbero far pensare al vermiglio volatile dei Martinengo, signori del luogo; essi sono invece specificatamente evocati nello stemma di Villachiara, che è creazione moderna (1933) dell’erudito monteclarense Oreste Foffa. Analogamente nel 1968 il Comune di Roè Volciano poneva con deliberazione consiliare nelle proprie insegne l’aquila imperiale, ma ad esplicito ricordo delle origini romane del Vicus Volusianus, scelta di sintesi storica compiuta anche da Cividate Camuno nel 1949. Nella largamente ghibellina Valle Camonica, Vione utilizza lo stemma storico castellano con l’aquila in volo, mentre Lozio assume le insegne della famiglia guelfa locale dei Nobili de Lozio. Rapace e torre infine figurano con altri soggetti nel moderno e ridondante emblema paesaggistico di Monno (Foppoli, 2013).
Nello stemma quinzanese l’antichità dell’immagine della costruzione fortificata pare essere confermata anche dalla sua preminenza nell’economia dello scudo, in cui il rapace figura come accessorio dalla posizione un po’ posticcia e non centrale, similmente a certi gigli in mano a leoni o altro, potenzialmente caduti da un precedente capo d’Angiò guelfo. La derivazione dell’aquila da un capo e non dall’effige dei Martinengo pare suggerita innanzitutto dalla difformità cromatica, ma anche dal fatto che difficilmente l’indiscussa potenza dei signori locali sarebbe passata in secondo piano, permettendo al loro emblema di divenire figura secondaria, per di più con un cambio di smalti. Dal punto di vista dell’araldica gentilizia, normalmente il castello poi non sarebbe stato inserito ma semplicemente inquartato, lasciando al grifagno volatile il predominio della scena. Tornando alla dinamica storica, il capo dell’impero nei secoli successivi alla sua rappresentazione, ovvero quando se ne era persa la ragione giuridica, poteva scomparire per far posto alla sola aquila, che entrava in relazione con le altre figure del campo (come per gli stemmi di Quinzano, Roccafranca, Castelcovati), o addirittura trasformarsi nella prima sezione di un troncato (occupando quindi non più di un terzo ma la metà esatta dello scudo, come per Chiari). Inoltre gli stemmari alto-lombardi (tipo il Carpani di Como) pullulano di castelli sormontati o cimati da aquile, anche se magari esse hanno conservato il loro sito originario, cioè il capo. Dinamica d’altronde comune in altre aree, quali la valtellinese e la chiavennasca:
del capo imperiale, tramontate nel Seicento le condizioni politiche che ne avevano favorito la diffusione, si perde il significato e la funzione originaria: la sua superficie si dilata verso il basso, occupando la metà superiore dello scudo, trasformando quindi l’aquila da simbolo secondario e accessorio in figura principale, così che le originarie figurazioni araldiche della famiglia perdono il predominio nella superficie dello stemma. (Foppoli, 1997, p. 26).
È quindi evidente come il rapporto anche spaziale che intercorre fra le (solo apparentemente) medesime figure non scaturisca da una meccanica trasposizione, come accade nei recenti stemmi di confezione commerciale, bensì rappresenti il prodotto di uno specifico iter iconografico carico di profonde implicazioni storiche.
Di rosso e d’argento: variazioni cromatiche nella storia
Nell’araldica i colori assumono una grande importanza e non sono mai casuali, ma spesso le ragioni che presiedono alla loro scelta si sono perse nella notte dei tempi, legate al denso universo simbolico del medioevo e alla sua peculiare percezione cromatica. L’uno e l’altra non sono certo quelli della sensibilità rinascimentale o barocca e delle loro interpretazioni veicolate dalle virtù morali, interpretazioni che già si manifestano in un testo fondamentale ma relativamente tardo come il Blason des couleurs(1414) dell’araldo Sicille. La stessa descrizione del blasone che muove dal campo per arrivare alle figure è un retaggio della lettura medievale che procedeva per piani: completamente estranea alla moderna, che si esprime per accostamenti, ma tutta protesa all’esplorazione della profondità spaziale, secondo una modalità che non poteva non entrare nella sintassi e nella morfologia del codice araldico.
Qui i colori sono sempre pieni, assoluti, privi di sfumature e liberi nella loro espressione, nessun pantone li vincola o li veicola: un rosso può così variare dall’aranciato al vermiglio senza tradire la sua identità. Sono colori «concettuali, quasi immateriali» (Pastoureau, 2004), che trovano la loro espressività nell’associazione, originario nucleo delle regole araldiche derivate in gran parte dal principio della massima visibilità d’origine vessillare e dal simbolismo cromatico basso-medievale, che assegna a taluni di essi (come a talune più tarde figure) una posizione privilegiata. In particolare, arcaicamente veniva utilizzata la triade rosso/nero/bianco, mentre il verde, il blu e il giallo ereditavano lo stigma della civiltà romana, che li considerava barbarici: una valutazione sulla quale certo pesava la povertà cromatica e l’opacità delle tinture sul prodotto finito. Infatti, a partire dal XIII secolo il costoso indaco permette di ottenere un blu intenso e brillante, che diverrà subito di moda presso la classe cavalleresca e in araldica, legando la sua fortuna soprattutto alle insegne dei re di Francia e della fazione guelfa, che fino ad allora aveva utilizzato – ma invertita nel campo con figure vermiglie – la bicromia ghibellina rosso/bianco. Lo statuto del giallo resterà molto ambiguo, mentre il verde non sarà mai troppo amato e troverà il suo riscatto solo alla soglia dell’Ottocento in area germanica, quando viene considerato il colore della libertà.
Per la sensibilità dell’uomo medievale il linguaggio e l’accostamento dei colori avevano insomma un’importanza dichiarativa pari a quella delle figure. Bisogna inoltre tener presente che, fino alla formulazione newtoniana settecentesca della teoria dello spettro visibile, erano aspetti sconosciuti la classificazione sequenziale dei colori, la distinzione fra primari e complementari (o fra tinte calde e fredde), e lo stesso ottenimento per miscelazione, mentre invece nel medioevo era vivacissimo il dibattito fra i sostenitori di un colore/materia e i paladini di un colore/luce, con importanti ricadute sul piano artistico e sociale: a riprova di come i colori e la loro teoria non costituiscano idee naturali astrattamente valide per ogni epoca e civiltà, ma elementi culturali a pieno titolo.
Si è visto che fino almeno al sec. XIV i tipi principali e quasi unici sono il bianco, il rosso e il nero, seguiti più tardi dal verde, dal giallo e dal blu. Conseguentemente, il contrasto maggiormente avvertito – e maggiormente utilizzato sui campi di battaglia, per tornare al nostro discorso araldico – non era tanto fra quelle tinte che sono per noi oggi fortemente oppositive quali verde/rosso, rosso/giallo o blu/giallo[47], bensì fra le coppie bianco/nero e bianco/rosso, con netta prevalenza di quest’ultima[48]. Non è pertanto un caso se più della metà delle arme conosciute si avvale di questa bicromia, certo anche per l’illustre precedente rappresentato dal vexillum sanguinolentumdel Sacro Romano Impero: la cosiddetta Blutfahneconsisteva infatti in un drappo recante croce bianca su campo rosso, un’immagine ancora più vetusta della sveva aquila nigra coronata de auro[49]che la soppianterà. Il bianco/rosso inoltre anticamente era un accostamento cromatico comune sia per il Papato che per l’Impero, certo per il grande impatto visivo che doveva assumere all’occhio dell’osservatore e per la relativa facilità di tintura con colori brillanti e stabili sia per i drappi che per le miniature, le vesti e le tele.
Quanto sopra premesso, va considerato che la primitiva attestazione dello stemma quinzanese sia nel Trivulziano: in uno stemmario quindi di compilazione codicistica e non in un documento d’uso comune. Possiamo solo dedurre l’esistenza di insegne antecedenti al XIV secolo e solo dal tardo Cinquecento sappiamo che esse erano impresse sulle campane, in forma quindi monocromatica. Non abbiamo ragione di dubitare che le tinte originarie possano esser state proprio quelle, ma non possiamo annettervi grossi significati, se non quello statistico della maggiore frequenza della coppia rosso/bianco (argento) in antico nell’area dell’Italia settentrionale: più dei tre quarti della grandi città che siglano la Pace di Costanza nel 1183, sia di parte Lega Lombarda che di parte imperiale, portavano insegne bianco/rosse[50]. Tuttavia, anche dal punto di vista cromatico lo stemma comunale ha subìto variazioni non di poco conto, di cui viene dato riscontro nella tabella riportata in chiusura di questo paragrafo: se i codici manoscritti del XV-XVI secolo e l’arme attribuita alla famiglia Quinzani, stirpe attestata dal Nassino nella nobiltà bresciana del Cinquecento, mantengono sostanzialmente invariata la cromia del campo d’argento caricato da figura rossa con in capo la nera aquila ghibellina su fondo oro, gli esemplari locali della pala di Sant’Anna e della tela di Santa Caterina mostrano ormai, con la perdita del capo, un campo rosso e una torre, nel primo caso d’oro e nel secondo nera, colore che mantiene anche l’aquila ormai scesa sui merli. Anche in questo comunque va ravvisato quell’elemento di dinamicità che connota gli stemmi come produzioni storiche, e quindi non fissabili in una forma primigenia e assoluta, peraltro in una cornice spesso priva di attestazioni documentali e di rimandi diretti. Una dinamicità diffusa: oscillazioni nei colori si trovano spesso negli stemmi comunali di area veneta (Foppoli, 2013).
All’interno di queste mutazioni, bisogna comunque considerare che in araldica vigono precise regole a proposito degli smalti, ovvero delle cromie dello scudo: essi si compongono di metalli (argento e oro – lontano retaggio dell’origine prettamente materiale degli scudi – riprodotti su carta rispettivamente con bianco e giallo), colori (i principali sono rosso, nero, azzurro e verde, a cui si aggiungono i secondari porpora, carnagione e al naturale) e pellicce (armellino e vaio). In particolare, nelle prime epoche veniva evitato l’accostamento di elementi di pari categoria: quindi il colore andava sullo smalto, e non si avevano due colori o due smalti insieme; parimenti la tonalità doveva essere piena[51].
Ritornando allo stemma civico quinzanese, si fa largo una suggestione, o meglio una semplice illazione, poiché non esiste alcuna prova documentale di ciò e pertanto l’assunto dovrà essere preso per il suo mero carattere di congettura: le serie storiche possono essere divise in due aree, l’una rappresentata dai codici manoscritti (con probabile derivazione dal Trivulziano) e dalle evidenze dell’arme gentilizia, l’altra dalle attestazioni pittoriche locali. Negli stemmari la cromia è identica sia per il campo che per il capo, e incidentalmente va notato che, secondo una tradizione consolidata ancorché priva di documentazione storica, i colori connotativi della comunità sono proprio il bianco e il rosso. Invece nella tela più rappresentativa, ovvero la pala di Sant’Anna che pure è coeva al Cremosano, la colorazione appare invertita per il campo, con la figura turrita che perde il suo primitivo carminio e assume lo sfondo dorato dello scomparso capo: colore su metallo, e quindi ossequio alle regole araldiche. La persistenza della nera aquila ghibellina (peraltro coronata) in una posizione che appare un po’ posticcia e in violazione dei principi cromatici con la sovrapposizione di due colori, potrebbe avvalorare l’ipotesi di una discesa successiva della figura dalla partizione onorevole sovrastante in un’epoca in cui si erano perse le ragioni giuridiche e le radici storiche dell’immagine, la quale finiva per essere assunta più per il suo valore iconografico-pittorico che per la sua significatività, quando gli stemmari invece si rifacevano ancora alla tradizione codicistica cinquecentesca. Tale codicistica rimandava certo a una situazione più antica, ma va comunque tenuto presente che già nel Trivulziano appaiono stemmi gentilizi diversi rispetto a quelli dell’araldica arcaica in uso nel XIII secolo: senza cadere in generalizzazioni – sempre indebite in questo campo –, anche le più tarde armi civiche potrebbero aver subito mutamenti, in relazione per esempio all’avvicendarsi dei domìni[52]. Un’ulteriore ipotesi, alquanto debole invero e poco suffragabile, potrebbe essere quella di un’inversione degli smalti da parte del Comune, magari per distinguersi da arme gentilizie; in questo caso però resta la patente infrazione alle regole di costruzione dello scudo, e si dovrebbe ammettere pacificamente che i manoscritti più antichi rimandino non a stemmi civici ma a stirpi nobiliari, questione ancora dibattuta ma che viene accettata da pochi commentatori.
Con la più tarda tela di Santa Caterina assistiamo a un degrado formale dell’insegna. L’esecutore, forse rammentando il più eminente modello di Sant’Anna, rende lo stemma un semplice e abbastanza rozzo rimando alla committenza pubblica: da elemento elegantemente inserito in una targa solennemente esplicativa, a solitaria e pedissequa appendice appena abbozzata e relegata in un angolo, senza alcuna connessione strutturale con il contesto del dipinto.
Un discorso a parte merita l’attuale versione dello stemma, che ripristina l’araldicamente corretta composizione cromatica di colore su metallo, ma fa decisamente virare il vivace scarlatto verso una tonalità bruno-aranciata che ricorda il tanné[53], tonalità che accomuna tutte le figure con gradazioni e ombreggiature di gusto moderno e forse più vicine al logo. Attenendosi strettamente alla tradizione araldica italiana, i colori si interpretano più verosimilmente al naturale: una torre di muratura in cotto e un’aquila con sfumature tono-su-tono non particolarmente araldica. Non è stata rinvenuta alcuna documentazione relativa alla raffigurazione attuale, che si rifà al gonfalone realizzato all’incirca verso il 1950, un drappo su fondo azzurro magari di moda al tempo della confezione, ma che, pur facendo parte dei colori principali, non è mai stato attestato: il Comune di Quinzano, come detto sopra, tradizionalmente alza i colori bianco/rosso. L’effige vessillare entrerà nella pratica quotidiana istituzionale dell’ente solo negli anni Ottanta/Novanta del secolo scorso: si presume quindi che essa possa essere una libera rielaborazione grafica commerciale dell’iconografia comunale, con una certa perdita delle ragioni storiche e segniche delle emergenze più antiche, perdita evidentissima nella pratica amministrativa quotidiana, in cui è invalso l’uso parallelo di uno stemma in campo d’oro: senz’altro di resa grafica più vivace sul bianco supporto cartaceo, ma del tutto inattendibile.
Leggere lo stemma: l’araldica spuria degli ornamenti esteriori
Lo scudo è destinato ad avere molta fortuna in campo araldico, partendo dalle più semplici fogge a mandorla allungata d’origine normanna (i cui prototipi si possono ammirare nell’arazzo di Bayeux) dei secoli XI-XII, fino alle forme più involute del barocco, che avevano ormai perso ogni nesso con la sua antica funzionalità. Ma come elemento connotativo del miles esso era già entrato in crisi dal XIII secolo con l’avvento della balestra e dell’arco lungo inglese, armi dalla potenza e gittata micidiali, che avevano indotto il cavaliere ad attrezzarsi più pesantemente, proteggendo i punti critici con piastre metalliche e rendendo lo scudo meno necessario e ingombrante per il governo del cavallo. A partire dal Trecento, ciò porta a un sensibile mutamento delle tecniche belliche e al ridimensionamento militare della cavalleria, sempre più efficacemente contrastata da balestrieri e picchieri appiedati, che la costringevano spesso a scendere da sella e a combattere come una sorta di fanteria pesante; nel Quattrocento
il cavaliere, coperto da capo ai piedi di acciaio, era un proiettile inarrestabile se lanciato in battaglia: ma bastava accerchiarlo e scavalcarlo, e diveniva un povero crostaceo in balia della plebaglia a piedi. (Cardini, in Le Goff, 1988, p. 121).
Lo scudo, che nel frattempo era divenuto elemento connotativo e distintivo sociale, esporta la sua funzione dichiarativa in araldica e bellica nei tornei, che nelle loro primigenie manifestazioni erano ben altro che guerra simulata, ma vere e proprie mischie armate e sanguinose, fortemente avversate dalla Chiesa, nelle quali «unus alium percutit et mala tractat et plerumque letaliter vulnerat et occidit»[54].
Passato attraverso l’impiego campale e divenuto il contenitore per eccellenza del segno, lo scudo, pur dismesso dalla sua marzialità militante, rappresenta il termine fisico ideale per esprimere le caratteristiche di linearità, sintesi e pulizia formale dell’araldica arcaica: il blasone infatti si occupa solo di ciò che sta all’interno di esso. Tuttavia, con il passar del tempo, si assiste a una moltiplicazione esponenziale di insegne, con una certa confusione e indistinguibilità fra possessore nobile e semplice cittadino, persa ancor di più l’antica qualificazione del portatore di scudo come uomo d’armi. Questa esigenza di distinzione si esplica con una ricca dotazione di ornati (Zug Tucci, 1978), ovvero di elementi che s’aggiungono all’esterno dello stemma strictu sensu: corone, elmi e cimieri che timbrano lo scudo (ovvero, che vengono posti immediatamente al di sopra), ma anche tenenti e supporti ai lati, manti, padiglioni, imprese, cartigli, motti. Su ciò si impernia da un lato l’eterna diatriba sul diritto o meno ai contrassegni araldici, dall’altro l’affermarsi delle armi di dignità, non più personali, ma collegate a una funzione civile, militare o ecclesiastica.
Nel campo dell’araldica civica finì per imporsi – forse più per spinta legislativa che per genuino sentire – la timbratura con la corona[55], in quella forma particolare che è la murale, ovvero fornita di mura, porte e torri merlate alla ghibellina. La sua lontana origine[56] viene fatta risalire all’onorificenza che l’esercito romano assegnava al primo soldato che scalava le mura di una fortificazione assediata (Crollalanza, 1878); in tempi più recenti si rifà a quella portata dalle tre più importanti città imperiali tedesche (Norimberga, Augusta e Francoforte sul Meno). Si tratta di una vera e propria insegna di dignità paragonabile a quelle nobiliari: nell’araldica civica infatti la sua forma esprime il grado dell’ente che l’assume, ovvero Comune di varia consistenza demografica, Città, Provincia. Già definita nei primi anni del Novecento all’indomani della costituzione della Consulta Araldica (RD 10 ottobre 1869, n. 5318 e RD 5 luglio 1896, n. 314, che stabilì anche l’istituzione del Libro araldico degli enti morali), mutò di poco foggia nei regolamenti successivi[57]. Attualmente per il Comune è «formata da un cerchio aperto da quattro pusterle (tre visibili), con due cordonate a muro sui margini, sostenente una cinta, aperta da sedici porte (nove visibili), ciascuna sormontata da una merlatura a coda di rondine, il tutto d’argento e murato di nero» (Drp 28 gennaio 2011)[58]; la legge non ne fa menzione, ma storicamente è invalso l’uso di foderare internamente il cerchio di seta scarlatta (come indicato dal Prontuario del Crollalanza, che ne definisce anche la misura lineare, ovvero una dimensione che non ecceda i 5/7 della linea superiore dello scudo). La normativa vigente pone altresì come elemento obbligatorio uno scudo di forma sannitica (detto anche francese moderno), cioè rettangolare a punta centrale con gli angoli inferiori arrotondati e proporzioni di 7 moduli di larghezza per 9 di altezza: uno schema assunto per la sua regolarità, che consente un migliore e più facile inserimento delle figure, ma a spese di altri formati più significativi come il pulito triangolare del francese antico già attestato dal XII-XIII secolo[59] Completano il tutto due serti decussati (cioè incrociati) d’alloro e quercia con foglie di verde e drupe e bacche d’oro, uniti da un nastro con i colori nazionali.
Tali sono gli elementi accessori che ornano lo stemma quinzanese, in ciò assolutamente identici a quelli di numerosissimi altri Comuni, in quanto eredità della rigida legislazione sabauda e rispondenti ad un gusto pompeur, floreale ed estetizzante codificato fra il tardo Ottocento e il primo trentennio del Novecento[60]. Va tuttavia notato che esistono notevoli eccezioni, sia per autonoma scelta degli enti che hanno effettuato restyling grafici di iconografie antiche, sia per mantenimento di caratteri o segni particolari storici e connotativi quand’anche non conformi al dettato normativo. Così alcune città timbrano i loro scudi con corone nobiliari in memoria dei loro passati signori, o perché esse stesse insignite di titoli comitali, marchionali o ducali, come ad esempio Ferrara, Modena, Genova, mentre Altamura utilizza addirittura la reale in memoria della sua rifondazione ad opera di Federico II; la stessa Brescia mantiene la corona patriziale, che ricorda la sua giurisdizione sul contado e viene interpretata come un riconoscimento simbolico della serrata oligarchica del 1488, che riservava i diritti politici solo ad alcune famiglie eminenti. Così centri maggiori o minori riportano elementi non standard come supporti o cimieri quali segnali storici individualizzanti della propria comunità, come Crema o Fermo, che addirittura innalza un elmo coronato con cimiero; nel bresciano gli unici portatori di cimiero sono Orzinuovi col suo dragone sopra l’antica balzana, e Capovalle con le insegne ispirate a quelle dell’antica comunità valsabbina sormontate dall’aquila. Così alcuni comuni hanno diffuso versioni più o meno ufficiali con scudi di foggia diversa dal sannitico, ripescando eleganti forme artistiche o architettoniche attestate sul proprio territorio (è il caso di Brescia con lo stemma a mandorla, e del bello scudo barocco di Napoli), o addirittura adottato una figura in campo libero, rielaborazione moderna ripresa dall’araldica arcaica (Palermo e Firenze, rispettivamente con l’aquila e il giglio), e assai più convincenti di dubbi restyling, che riducono lo stemma a un marchio commerciale.
Questo porta inevitabilmente ad accennare a un annoso problema che riguarda l’intera gamma dell’araldica civica, e a cui si era fatto accenno nelle prime pagine di questo studio, ovvero la significanza di un codice che nasce entro uno specifico contesto culturale e attraversa molti secoli, ognuno con la sua propria temperie e la propria tradizione/traduzione legata ad espressioni artistiche, committenze, modi e metodi di rappresentazione: allora, quale potrà essere il vero stemma di un ente? In realtà, la domanda è mal posta: in un illuminante saggio Savorelli chiarisce che lo statuto espressivo dell’araldica è ben lontano dal decorativismo e dall’ermestismo, e risponde a una precisa logica comunicativa, non inossidabile al tempo. In questo senso, lo stemma è sempre una produzione storica che riflette esigenze contingenti:
l’araldica funziona un po’ come le idee platoniche. Nessun modello fenomenico o empirico è quello vero, ma c’è da qualche parte l’idea della quale essi partecipano, così come ogni cavallo partecipa della cavallinità ed ogni azione buona del bene. Essa non è mai consegnata a un’immagine da copiare o tenere come modello, ma a una strana formula chimica, la cosiddetta blasonatura (ovvero la descrizione nel gergo tecnico-araldico dello stemma) e differisce dalle sue incarnazioni concrete come le rispettive formule chimiche dall’aspirina o dalla soda caustica concrete. (Savorelli, 2009).
Ciò è noto ab antiquo: la versione che ci è stata tramandata non è assai probabilmente la primigenia, ma un’immagine incrostata dagli anni, dagli interpreti e dalle interpretazioni. Il blasone orienta sugli elementi fondamentali quali figure, partizioni e colori, mentre la scienza araldica prescrive la corretta tecnica esecutiva nel rispetto di una sintassi codificata su alcune regole formali imprescindibili, al di là dei singoli dettagli di resa grafica. In ciò emerge ancora prepotentemente la proteiforme vitalità dello stemma e la sua forza espressiva capace di attraversare i secoli, restituendo un codice e le declinazioni che il tempo e gli uomini ne hanno dato: insieme segno storico, prodotto culturale, rappresentazione ideologica e suggestione polisemica.
Blasoni e note extra blasoniche
(a cura di Maurizio Carlo Alberto Gorra e Fabio Bianchetti)
Dallo Stemmario Trivulziano (1452 ca)
D’argento, al castello di rosso, aperto e finestrato del campo, torricellato di due pezzi; al capo d’oro, all’aquila al volo abbassato di nero.
Note: il Foppoli nel suo Stemmario Bresciano rende graficamente lo stemma secondo l’iconografia attuale e quindi priva del capo dell’impero: d’argento al castello di rosso torricellato di un pezzo, merlato alla ghibellina di quattro, chiuso di nero e cimato da un’aquila al volo abbassato, al naturale. Per quanto riguarda l’attualità dello stemma senza la partizione onorevole del capo, non si può escludere (anche se mancano evidenze in tal senso) che un ipotetico scudo pre-trivulziano e quindi più antico ne fosse privo, ovvero che esso venisse assunto in una particolare – e successiva – contingenza politica.
Da Insignia Familiarum (cd. Codice Archinto, 1560 ca).
Torino - Biblioteca Reale: Coll. Storia Patria, 138/1.
D’argento, al castello di rosso, aperto e finestrato del campo, torricellato di due pezzi; al capo d’oro, all’aquila al volo abbassato, di nero, coronata del campo e linguata di rosso.
Note: disegno di esemplare eleganza per stile, proporzione delle figure, nettezza di forme e colori.
[riprod. su concessione 23.12.2014 del Ministero dei Beni e Attivita Culturali e del Turismo, Direzione Regionale per i Beni Cultrali e del Paesaggio, Biblioteca Reale Torino]
Dallo Stemmario Cremosano (1673 ca).
Milano - Archivio di Stato: Codice 92, p. 263.
D’argento, al castello di rosso, aperto e finestrato del campo, torricellato di due pezzi; al capo d’oro all’aquila al volo abbassato di nero.
Note: l’edificio appare ora inequivocabilmente merlato alla guelfa, come quello raffigurato nel Codice Archinto. Potrebbero essere riconducibili a minuzie stilistiche alcune variazioni, quali la foggia secentesca dell’aquila, nonché la merlatura di tre al castello e la scomparsa di un palco e relative finestrature nelle torricelle (elementi che, come abbiamo visto per le strutture castellane, non si blasonano). Rispetto agli stemmari precedenti, vi è uno scorciamento della cinta muraria: il castello va approssimandosi alla torre.
Dalla pala di Sant’Anna (1630). Quinzano, chiesa di S. Faustino e Giovita.
Di rosso, al castello d’oro, aperto al naturale, torricellato di due pezzi ognuno merlato alla ghibellina di due, cimato da un’aquila al volo abbassato di nero, sormontata da una corona all’antica dello stesso, ogni artiglio posato su una torre.
Note: sussiste il fondato dubbio che l’antico castello venga ora risolto in un torrione. La locuzione tradizionale dovrebbe essere “aperto del campo”, ma il Gorra ha acutamente osservato un’ombreggiatura all’interno del vano del portone, e ha dedotto che l’ombra è quella che si vede “in natura”, e quindi il portone è aperto. E siccome si deve sempre blasonare ciò che si vede e non ciò che si pensa l’autore volesse far vedere (sicuramente un “aperto del campo”), si è preferita l’opzione in sé inusuale di “aperto al naturale”. Rispetto al quasi coevo Stemmario Cremosano, da notare la merlatura ghibellina e l’aquila coronata al volo abbassato.
Dalla tela di Santa Caterina d’Alessandria (1712-16). Quinzano, chiesa di S. Giuseppe.
Di rosso all’ombra[61] di torre, finestrata di tre pezzi, merlata alla ghibellina e cimata da un’aquila, il tutto di nero.
Note: si tratta di una rappresentazione sommaria delle insegne civiche in una tela ex voto, non essendovi al tempo famiglie notabili del territorio innalzanti un emblema simile: è plausibile ritenere che all’ignoto artista premesse assai più indicare la committenza pubblica che fare un discorso filologico sullo stemma. Rispetto ad altre attestazioni iconograficamente più degne di fede, l’aquila è al volo spiegato (in araldica la norma, per cui non si blasona) e la massiccia costruzione si è risolta in una torre sbrigativamente tratteggiata: una figura anomala, di profilo e poco dettagliata, che si rende pertanto come “ombra”.
D’argento al torrione ritorricellato, merlato alla ghibellina di quattro pezzi, chiuso e sormontato da un’aquila al volo abbassato, il tutto al naturale.
Note: in araldica i merli preminenti sono quelli delle torri, anche se con l’andar del tempo fossero diventati minuscoli: un tempo erano evidenti, laddove i merli dei castelli facevano tutt'uno con la struttura e venivano come ricompresi in essa. In questo stemma, in cui il portone utilizza lo stesso colore della torre, la chiusura è indicata dalla linea mediana verticale, che evidenzia un’apertura “a doppio battente”.
APPENDICE NORMATIVA
Le Autonomie Locali fra titolo giuridico e riconoscimento formale
L’uso dello stemma dello Stato, approvato con DLgs 5 maggio 1948 n. 535, è a riserva esclusiva del titolare e dei suoi organi: così si esprime l’art. 57 del RD 7 giugno 1943 n. 652, che riprende norme previgenti. Come accennato in apertura, il DLgs 267/2000 prevede che le Autonomie Locali possano dotarsi, nella propria autonomia istituzionale, di uno stemma, dichiarandolo nello Statuto e quindi senza necessità di altra legittimazione: questo è oggi orientamento giurisprudenziale corrente, anche se non da tutti condiviso. Con Risoluzione del 19 febbraio 2009 il Ministero dell’Interno - Dipartimento per gli Affari interni e territoriali, intervenendo in merito ad abusi e appropriazioni indebite, evidenzia che
lo stemma è il segno distintivo ed individualizzatore nonché l’emblema figurativo del comune, riprodotto sul sigillo, sulla carta intestata e sul gonfalone ed ha la stessa natura degli stemmi gentilizi privati [...] Lo stemma forma oggetto di proprietà da parte dell’ente che si identifica con la riproduzione grafica, che quindi può esercitare facoltà e poteri propri di questo diritto: anzitutto la tutela contro atti appropriativi, quali quelli di usurpazione, totale o parziale del titolo, ma anche contro un suo uso improprio o comunque non consentito. L’articolo 6, comme 2, del TUOEL n. 267/2000 demanda all’autonomia dell’ente locale quindi allo statuto, nel quale viene descritto, la determinazione dello stemma che forma oggetto di identificazione statutaria ed è, pertanto, oggetto di proprietà del comune. La tutela dello stemma come elemento grafico rappresentativo della identità dell’ente è riconducibile nell’ambito della tutela civilistica che l’ordinamento riserva al diritto al nome, prevista dall’articolo 7 del codice civile, che costituisce la sede naturale ove l’amministrazione locale può risolvere eventuali violazioni del relativo diritto. Tale tutela copre il diritto all’uso e assicura la cessazione del pregiudizio derivante dall’uso che altri indebitamente ne faccia, prevedendo anche il risarcimento dei danni [...] Il regolamento [comunale] disciplina, nel rispetto della legge, l’uso del gonfalone e dello stemma, nonché i casi di concessione in uso dello stemma ad enti od associazioni operanti nel territorio comunale e le relative modalità. Per le considerazioni suesposte, il comune potrà agire contro chiunque, al di fuori dei casi di concessione in uso di cui alla citata norma regolamentare, utilizzi il proprio stemma o che autorizzatovi, ne faccia un uso non consentito.
La più recente disposizione in materia di araldica civica è il DPR 28 gennaio 2011, con il quale il legislatore si prefigge fra l’altro l’obiettivo di «aggiornare il linguaggio utilizzato per l’autorizzazione all’uso nel territorio nazionale delle onorificenze pontificie e per l’istruttoria relativa all’araldica pubblica, nonché a semplificare le regole procedurali dell’attività posta in essere dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Ufficio onorificenze e araldica». Dalla lettura dell’art. 3 si evince che il titolo a fregiarsi di emblemi (ormai solo pubblici, per l’azzeramento costituzionale dei ranghi di nobiltà e la soppressione della Consulta) nasce in seguito a concessione, atto giuridicamente diverso dall’autorizzazione: quest’ultima consta dell’eliminazione di un limite o rimozione di un divieto riconducibile a un preesistente diritto potenziale già in capo al richiedente, mentre la concessione è strumento autoritativo di governo di determinati interessi pubblici con il quale si attribuisce un nuovo diritto, di cui il soggetto destinatario non era titolare prima dell’emanazione dell’atto.
Se per attribuzioni di stemmi ex novo (ad esempio per le Regioni, non esistenti fino al 1970) la disposizione ha un suo fondato senso, l’istituto in questione potrebbe essere discutibile, qualora costituisse anche solo la possibilità di un vulnusin grado di inficiare o comunque ledere prassi consolidate nella storia e nel tessuto civico-sociale. Non è quindi un caso che nelle disposizioni particolari dell’art. 4 venga prevista un’importante norma di salvaguardia senza distinzione di emblemi iscritti nel Libro Araldico o meno, norma che mitiga la portata dello strumento concessorio: «gli stemmi ed i gonfaloni storici delle province e dei comuni non possono essere modificati», e che all’art. 8 si rammenti che per quanto non previsto «continuano ad applicarsi le regole della tradizione e prassi araldica». È poi evidente che il citato decreto sia applicabile solo ad emblemi che appartengano all’ambito araldico, con l’esclusione di marchi e logotipi.
Qualora un Comune (Pubblica Amministrazione ricompresa fra quelle citate dall’art. 2) volesse adire alla concessione con emanazione di un decreto del Presidente della Repubblica e contestuale trascrizione sul Libro Araldico degli Enti Territoriali e giuridiciconservato presso l’Archivio Centrale dello Stato, dovrà presentare una domanda in duplice copia a firma del Sindaco: una in carta libera diretta al Presidente della Repubblica, l’altra in carta da bollo diretta al Presidente del Consiglio dei Ministri. Le istanze dovranno essere corredate dai seguenti documenti:
- copia della delibera del Consiglio comunale contenente la volontà di dotarsi [sic] di uno stemma e di gonfalone, che deve contenere la puntuale descrizione delle insegne
- una marca da bollo di € 16,00;
- cenni storici sul Comune;
- bozzetti (ovvero i disegni miniati, che saranno parte integrante del DPR) degli emblemi araldici richiesti e relativi blasoni[62].
Lo scudo da utilizzarsi per la costruzione dello stemma è quello sannitico moderno, cioè rettangolare con gli angoli inferiori arrotondati, con proporzione di sette moduli di larghezza per nove moduli di altezza. I Comuni dovranno collocare sopra lo stemma (in termini tecnici: timbrare) con la corona[63] indicante il grado di appartenenza, diversa per ogni tipo di Ente.
Arricchiscono le insegne l’alloro e la quercia, con le foglie di verde e con drupe e bacche d’oro; le fronde si pongono decussate e legate in basso da un nastro tricolore. Particolari prescrizioni vigono anche per il gonfalone – rivisitazione ottocentesca piuttosto impropria del pavese medievale – che fa parte degli «emblemi araldici di un Ente» insieme allo stemma, alla bandiera e al sigillo.
Secondo l’ottimo studio del Foppoli (2013), Quinzano appartiene comunque agli enti dotati di stemmi civici secolari con legittimità giuridica derivante dall’uso, anche ai termini dell’art. 1140 del Codice Civile[64]. L’attestazione della storicità delle insegne genericamente richiesta dal RD 652/1943 attraverso «la produzione di fotografie di monumenti, lapidi o opere d’arte, esposte al pubblico da almeno 100 anni», per quanto ancora richiamata da alcuni enti in atti deliberativi recentissimi, con decorrenza 8 ottobre 2010 è stata espressamente invalidata con l’abrogazione dell’intero Regio Decreto ad opera dell’art. 2269 comma 1° punto 157 del DLgs 15 marzo 2010 n. 66 (Codice dell’Ordinamento Militare). La fonte attuale del titolo giuridico si trova pertanto nello Statuto ex DLgs 267/2000: va rilevato che per quanto riguarda Quinzano, il suo art. 4[65]è alquanto lacunoso, impreciso e bisognoso di adeguato blasone. Come si è detto, resta la facoltà di richiedere l’eventuale – ma non sostanziale – provvedimento burocratico di concessione[66], che in realtà nulla toglie e nulla aggiunge se non una generica cristallizzazione dell’insegna, ma si configura come mero adempimento burocratico.
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Note
[1] Sull’utilizzo simbolico dello stemma nelle pratiche comunicative di affermazione del potere comunale, cfr. Ferrari in Ferrari-Foppoli, 2009. Sulla natura più iconica che simbolica dell’araldica, vedi Pastoureau, 2004, e Ferrari-Foppoli, 2009; una disamina della questione anche in F. Bianchetti, 2013. Se la nascita dell’araldica si rifà ai campi di battaglia, vessilli e stendardi non volevano simboleggiare nulla, ma costituire segnali di schieramento e di manovra per le forze combattenti. Solo successivamente, quando le mutate condizioni belliche resero obsoleto questo sistema, gli stemmi civici e gentilizi assunsero caratteri di rappresentazione e di ostentazione, ornandosi con elementi estranei alla loro genesi quali le imprese, moltiplicatesi in età rinascimentale e barocca: figure allegoriche o emblematiche che rappresentano simbolicamente e a volte cripticamente un fatto vissuto, un proposito, un desiderio, una linea di condotta. Una particolare declinazione simbolica è presente, ma solo dal Concilio Vaticano II, per gli emblemi ecclesiastici, che possono alludere anche al cammino spirituale del portatore o esprimere una sua intenzione programmatica o tensione spirituale (Foppoli, 1997).
[2] Sotto questo aspetto, un esempio illuminante è rappresentato dall’insegna dei Gambara, che nel Codice Trivulziano (1452 ca) portano la tradizionale arma parlante d’argento al gambero di rosso in palo, mentre il duecentesco affresco del ciclo infamante in Broletto attribuisce loro un fasciato di nero ed oro. Il Ferrari nota che grandi rivolgimenti politici interessarono Brescia fra Tre e Quattrocento con il passaggio dal Ducato Visconteo alla Serenissima: rivolgimenti che incisero anche a livello simbolico: «pertanto, quando l’araldica bresciana torna alla ribalta del pubblico, dunque verso la metà del XV secolo, appare profondamente mutata» (Ferrari, 2008). Inoltre, questo famoso ciclo non visibile al pubblico (che chi scrive, al tempo studente liceale, ebbe la possibilità di ammirare personalmente grazie alla lungimiranza ed alla passione della prof. Botti Tramontana) consta di una doppia segnatura iconografica e letterale – ovvero con gli stemmi e con una sorta di legenda didascalica – dei Cavalieri, finalizzata alla loro massima riconoscibilità da parte di alfabetizzati ed analfabeti in un’epoca in cui la ritrattistica non era ancora perfezionata: un’ulteriore dimostrazione di come l’araldica delle origini non appartenesse esclusivamente all’ambito nobiliare o al ceto dei milites, ma permeasse la percezione connotativa ed individuativa dell’uomo medievale di ogni strato sociale. Ciò appare del tutto in linea con quanto espresso dal giurista trecentesco Bartolo da Sassoferrato nel suo Tractatus de insigniis et armis: «sicut enim nomina inventa sunt ad reconoscendum homines... ita et ista insigna inventa sunt» (4,40). Ma già un secolo prima non era un’eccezione: in un atto del 1272 si è conservato il calco sigillare su pendente di Lancillotto Havard, contadino normanno certo facoltoso ma pur sempre rusticus (cfr. Pastoureau, 2004).
[3] Un esempio è quello del Comune bergamasco di Martinengo, che attualmente utilizza praticamente le insegne dell’omonima famiglia (d’oro all’aquila di rosso), ma si tratta di uno stemma subentrato in età moderna ad uno più vetusto, attestato nel Trivulziano: d’argento alla stella a otto punte di rosso. Nel bresciano anche Flero, appartenente ai Comuni che si dotarono di insegne agresti o forse anche parlanti (possibile l’assonanza con “filér”, filari) in un sigillo del 1760 portava tre grappoli d’uva appesi ad un tralcio, mentre già prima dell’Ottocento pone sul brillante campo rosso tre dorate pannocchie di mais. Decisamente esemplificativa delle modifiche e dei fraintendimenti cui sono soggette le figurazioni araldiche, è pure la vicenda di Ghedi, il cui bianco scaglione d’origine vessillare probabilmente molto antica, si ritrova trasformato in una sorta di lambda per una progressiva perdita delle ragioni iconografiche del segno (Ferrari-Foppoli, 2009).
[4] Bascapè-Del Piazzo, 1999 e Bascapé, 1999. La maggiore complessità figurativa del sigillo, non di rado diverso dallo stemma, si spiega con la sua natura strumentale, ovvero la necessità di garantirsi dalle contraffazioni quale oggetto privilegiato di pubblica fede e non semplice istanza dichiarativa o comunicativa.
[5] Foppoli, 2013. Il Borgia, nella sua introduzione allo studio dell’araldica civica contenuta in Pagnini, 1991, cita fra l’altro un passo dell’Arte militaredi Vegezio: «ut omnes videlicet habeant quid commune depictum vel consutum super clipeo, galea, lancea vel armatura exteriori, quo quidem amicus ad inimico discernitur».
[6] Favini-Savorelli, 2006. Gli autori parlano addirittura di stemmi come «fossili vessillologici» (il Foppoli ne individua alcuni anche in ambito bresciano, fra cui l’antica balzana di Orzinuovi forse allusiva al primitivo pavese della città di Brescia), mentre l’araldica a sua volta avrebbe dato alle bandiere molte figure parlanti e pezze improntate alle forme dello scudo, nonché una codificazione sconosciuta ai sistemi pre-araldici. Lo stesso termine di “pezze” ricorda l’origine tessile delle figure, che non erano stampate bensì cucite sui drappi, e che potevano all’occasione essere tolte o aggiunte, secondo l’utilità del momento.
[7] Non a torto è stato fatto notare il legame linguistico fra tecnica bellica e simbologia araldica evidente nel termine armi (o arme, in antico), armoires in francesce, arms in inglese e wappen (waffen) in tedesco.
[8] «I bolognesi non volevano protestare, se non della loro vendita e perché fin da piccoli non avevano mai visto l’aquila e la vipera che ora erano stati fatti dipingere in tutti i quadrivi, dopo che erano stati raschiati i gigli, i rastrelli, le chiavi e i leoni» (Pietro Azario, Liber gestorum in Lombardia, in Raveggi, 2009).
[9] Nel bresciano era comune per l’area guelfa il giglio o il capo d’Angiò, ovvero un lambello a quattro o più pendenti sulla parte superiore dello stemma, lambello che talvolta, per le note vicende di perdita di significanza storica, veniva equivocato fino a divenire tutt’altro: magari un rastrello (Orzivecchi, Pertica Bassa) o una lama dentata (Polpenazze).
[10] Cfr. Settia, 2002; Neubecker, 1980. Non sempre le varianti vanno comunque ascritte ad ignoranza della scienza blasonica. Il Dupré Theseider, 1978 suggestivamente nota che «i nostri antichi [...] si comportano con assai più libertà d’inventiva di quel che facciamo oggi noi, schiavi come siamo della routine burocratica».
[11] Brisura o spezzatura è detta la variante introdotta in un’arma per distinguerla da quella di altre linee della famiglia: ad esempio, per i Martinengo l’aquila nella sua forma semplice è rimasta a quattro rami (Cesaresco, dalle Palle, di Padernello e della Pallata), mentre i conti di Barco assunsero sul tutto il leone di San Marco in moleca, i Martinengo-Colleoni inglobarono gli elementi di questa casata, ed i nobili di Villachiara e Villagana inquartarono gli stemmi di Francia e degli Estensi di Ferrara (cfr. Guerrini, 1930).
[12] Cfr. Foppoli, 2013. Bartolo da Sassoferrato, insigne giurista che per primo sistematizzò la materia, nel suo Tractatus de insigniis et armispubblicato postumo nel 1358, in ossequio al principio dell’individuazione afferma esplicitamente essere ben ammissibile «quidam tamen arma seu insegna sua propria auctoritate assumunt sibi» (4,38), con l’unico limite della non usurpazione delle armi altrui o dell’appropriazione di elementi regali.
[13] Si definiscono ornamentitutte le figure che accompagnano esteriormente gli scudi gentilizi. Il timbroè l’ornamento che è posto al di sopra dello scudo e che è composto a sua volta da vari elementi, in particolare da elmi e corone quali “insegne di dignità”, che rimandano a particolari funzioni o poteri. La maggior parte degli stemmi civici per gli enti territoriali riprendono l’iconografia della corona, di tipo diverso secondo l’ordine della città. Ne sono prive le Regioni, istituite negli Anni Settanta del XX secolo, nonché alcune autonomie locali, come meglio si vedrà in Appendice.
[14] Le notizie sull’araldica civica bresciana sono tratte (purtroppo in una forma riassuntiva che rende alla ricchezza del lavoro ben poca giustizia) dall’ottimo Stemmario Brescianodel Foppoli (2013), a cui si rimanda per ogni approfondimento.
[15] La balzana(sinonimo di troncato) è una partizione principale che divide lo scudo orizzontalmente in due parti uguali. Lo scaglione è invece una pezza onorevole composta da una sbarra(pezza onorevole che scende diagonalmente dalla sinistra alla destra araldiche) e da una banda(pezza onorevole che scende diagonalmente dalla destra alla sinistra araldiche) che si uniscono ad angolo verso il capo dello scudo.
[16] Anche centri minori, di certo privi di rilevanti munizionamenti o di importanza militare, utilizzavano spesso nelle loro raffigurazioni cinte murarie o fortificazioni, in quanto sede di un modesto patriziato locale discendente da scudieri o vassalli di secondo piano (cfr. Foppoli, 1997), o anche perché riprendevano quasi come scorci paesaggistici torri di avvistamento o palazzetti muniti costruiti dai feudatari del luogo (numerosi esempi nell’area toscana in Passerini, 1894).
[17] Per la verità, il cervo che compare nell’insegna della valle dalle forti simpatie imperiali era forse in origine un leone guelfo ghermito dall’aquila ghibellina, raffigurazione su cui poi prevalse quella più naturistica, propiziata magari anche dall’inclinazione alla caccia delle popolazioni di un’area assai ricca di selvaggina (comunicazione personale di Fabio Bianchetti).
[18] In un lavoro che sarà edito a breve, Fabio Bianchetti illustra l’unicità della storia delle insegne idrensi: sul finire degli anni Quaranta del secolo scorso il Comune aveva infatti ceduto (e non era caso infrequente: vedi nota successiva) alla tentazione di sostituire il proprio storico stemma, di cui aveva perso memoria, con uno realizzato dal solito studio commerciale. Tuttavia, in controtendenza rispetto alle determinazioni più frequenti dei primi cittadini che cercavano di nobilitare i propri centri a suon di spade e castelli, negli anni Sessanta intelligentemente il sindaco Ottorino Bertini ripristina d’autorità il corretto stemma: il Comune si trova ad avere in uso così in quattro lustri due diverse insegne, anche se è dubbio che per quella commerciale sia stato avviato l’iter per la concessione statale, ottenuta invece dall’antica Idra che oggi campeggia su gonfalone ed atti ufficiali dell’Ente.
[19] Solo alcuni esempi di come sia facile eludere la storia e smarrire le proprie radici, ieri come oggi, magari per le smanie di protagonismo e l’arroganza di qualche amministratore-sceriffo. Il primo è il caso dello stemma di Tremosine (di cielo, a tre rupi rocciose, la centrale sinistrata da una croce latina, il tutto al naturale, accompagnate in capo dal motto “Et tu viator vale” centrato d’argento, e sostenute da una campagna d’azzurro, a due fasce ondate d’argento): si tratta di un’insegna personalmente inventata nel 1914 dal sindaco Arturo Cozzaglio per sostituire d’autorità il secolare e documentatissimo stemma parlante che recava tre volti, tre musoni poco graditi al primo cittadino. La rappresentazione panoramico-turistica con tanto d’ammiccante invito al villeggiante venne concessa in seguito con Decreto del Presidente della Repubblica su istanza del Comune, che dichiarava non esistere alcuno stemma civico storico e prendeva per buono quello del Cozzaglio, elegantemente dribblando la norma che vieta di sostituire le insegne di antico possesso. Il secondo caso riguarda Adro, che fin dall’ultimo scorcio del Quattrocento presentava un emblema in campo argento recante una grande “A” rossa accompagnata da tre tralci d’uva parimenti rossi; una variante lo dipinge con una “C” ed una “A” alle estremità (Comunitas Adri) e un unico grappolo d’uva. Lo stemma attuale, attribuito con Dpr, è invece verde alla lettera “A” maiuscola d’argento con tre grappoli d’uva dorati, in spregio filologico agli smalti originali e attestati. Edolo invece ha ottenuto nel 1950 la concessione di uno stemma prodotto da studio commerciale, di rosso al castello al naturale accollato di due spade d’argento, un emblema abbastanza insipido che sostituisce l’arcaica insegna parlante e ricca di storia, raffigurante una colonna che sostiene una statua maschile di stile classicheggiante: l’idolo che stava all’origine della comunitas Yduli, nata sull’antico tempio dedicato a Saturno o Camulo, divinità camune. Il dato paradossale è che spesso si va su commissione alla ricerca di un’insegna che nobiliti genericamente la comunità e il territorio, dimenticando le reali attestazioni cariche di storia e di significanza. Notevole è anche l’esempio di Borgo San Giacomo (fino al 1863 Gabbiano), che nel Novecento ricusò il proprio storico e antico stemma parlante raffigurante una voliera (una gabbia, appunto), per assumerne uno confezionato sempre da qualche agenzia araldica, d’azzurro al biscione d’argento ingollante un putto accostato nel cantone sinistro di due spade. La giustificazione risiedeva nel fatto che Borgo San Giacomo era stato teatro di battaglia ed era appartenuto al dominio visconteo: in questo, esattamente come qualche centinaio di altri siti dell’Italia centro-settentrionale.
[20] Cfr. Foppoli, 2013, pp. 12, 19, e Fabio Bianchetti, comunicazione personale.
[21] Brescia, Archivio Storico Civico, n. 434/3.
[22] Il testo è ripreso da Fappani-Soregaroli, 2013. Dopo un lungo dibattito (cfr. in particolare le posizioni dell’Odorici e del Wüstenfeld in Guerrrini, Monografie di storia Bresciana V), la recente storiografia pare abbastanza concorde nel ritenere il diploma a noi pervenuto un apocrifo, ovvero una copia tarda di un originale (presumibilmente del XVII sec. su un apocrifo del XIII sec.) Gli apocrifi sono atti che riproducono un documento anteriore, spesso una consuetudine tramandata assunta primigeniamente per via orale e di utilizzo comune nel medioevo come attestati di pubblica fede siglati da notai per sostenere degli usi; trattavasi quindi di atti notori pacificamente accettati. La difformità dagli originali sta nella forma, che non può essere evidentemente uguale a quella assunta ab origine, mentre la sostanza è autentica. Diverso è il discorso del “falso”, ovvero un atto inficiato nella forma e nella sostanza.
[23] «Chiamasi signore castellano colui che ha diritto di avere un Castello o una casa fortificata cinta di fossati, e che possiede una giustizia chiamata Castellania» (in Philip Antoine Compte de Merlin, 1841, Dizionario universale ossia repertorio ragionato di giurisprudenza): una funzione insieme amministrativa e giudiziale, quindi. Sulla torre campanaria, simbolo ad un tempo civile ed ecclesiastico, del Comune di Sarezzo, nella spessa muratura di conci è inserita l’effigie dei due santi e sotto lo scudo la scritta Castellanie Comunis Saretii Vallis Trompie, che compare nello stemma comunale e forse richiama l’esistenza di uno scomparso castello.
[24] Le origini germaniche prospettate dal Pizzoni sono controverse. Il Guerrini (1930) accetta la versione di una probabile discendenza dei Martinengo dai conti Gisalbertini del bergamasco, quando la mutazione del nomen era un fatto usuale per indicare rami collaterali, cadetti o bastardi; parimenti accetta la versione secondo cui essi dovessero essere i signori del castello, capitani de Martinengo, centro orobico il cui fortilizio pare anteriore al sec. X, tradendo nel nome un’origine longobarda con il suffisso toponomastico -engo, che delineava la proprietà di una terra (in questo caso “di Martino”). Il Sala (1990) informa che dai documenti contenuti nel Liber potheris civitatis Brixiae «sappiano che oltre l’Oglio i Martinengo possedevano già agli inizi del XII secolo le corti di Quinzano e di Pontevico e terre a Rudiano».
[25] Nell’Ordo Funerisdell’Arisio, fra i nobili che rendono omaggio alla salma di Gian Galeazzo Visconti nel 1402 figurano anche i domini Johannes e Gerardus de Martinengo.
[26] Per gli interessanti aspetti giuridici dell’infeudazione e per i complessi rapporti fra città e territorio circostante, cfr. il saggio di Alessandro Pontoglio-Bina, 1997-98, “Il castrum di Quinzano ed il Diploma di Ottone”, Memorie dell’Ateneo di Salò, s. II a. VIII.
[27] Il primo borgo franco creato da Brescia fu Orzi (ora Orzivecchi) nel 1120. Per meglio contrastare gli attacchi dei soncinesi, tra il 1193 e il 1195 la città trasferì popolazione e fortificazioni nel più difendibile e ricostruito Castrum S. Georgii (ora Orzinuovi). Solo di qualche anno successiva sarà la carta di affrancamento di Quinzano: con tale politica di mirato controllo verso il contado, il Comune urbano raggiunge da una parte l’obiettivo di un progressivo esautoramento dei poteri feudali degli spesso recalcitranti conti rurali, con l’accortezza di mantenere comunque saldi gli equilibri costituiti dalla lontana dissoluzione dell’ordine longobardo, affiancando alla nobiltà magistrature cittadine. D’altro canto, si garantisce l’esercizio della sovranità e intangibilità territoriale, insieme ad un prelievo più o meno forzoso di riserve e prestazioni, sostituendosi alle pretese signorili del periodo bannale e feudale: «enfin, méme dégagée de l’empris de son seigneur, la communauté rurale n’est pas indépendante: la commune urbain est un grand soeur souvent abusive, dons les exigences risquent de peser lourd dans les budgets paysans» (Menant, 1993). Di questo complesso e stratificato sistema stretto fra dominanza urbana e autonomia locale, l’araldica rende spesso testimonianza.
[28] Cfr. Foppoli, 2013. L’attribuzione è in Monti della Corte, 1974. Devo questa precisazione, lo stemma della famiglia Quinzani, e molte altre indicazioni di cui darò puntualmente conto, alla cortesia e preparazione di Fabio Bianchetti, valente miniaturista, studioso di araldica e, incidentalmente, cugino di chi scrive.
[29] Pandolfo Nassino, Registro di cose di Brescia. Casate bressane, in Monti Della Corte, 1974.
[30] «Su una delle quadrifore dell’ala meridionale (e più antica) del Broletto, campeggia nitidamente un affresco rappresentante una triade di stemmi: al centro di essa domina il biscione visconteo, alla sua destra (araldica) lo stemma del Podestà che esercitò in Brescia nel 1343 e nel 1355, ossia Ramengo Casati, e a sinistra quello che logica vorrebbe fosse lo stemma del Comune di Brescia, vista la sua collocazione sul principale palazzo pubblico cittadino» (F. Bianchetti, 2011). Nella tarda reiterazione di Quinzano, ormai dominio di Venezia con la sua politica di formale rispetto per le tramontanti autonomie comunali, al leone marciano è aggiunto quello della città capoluogo.
[31] Per scrupolo di ricerca, pur essendo consapevole dell’esito negativo, la scrivente ha effettuato un sopralluogo sulla torre della chiesa parrocchiale, confermando quanto già noto dalle scritture, ovvero che le campane, soggette a varie traversie nel corso dei secoli, sono attualmente costituite da apparati risalenti al Novecento.
[32] Quinzano - Archivio Storico Comunale: Nota di risposta al Comune di Quinzano Veronese, prot. n. 1361 del 7 ottobre 1901.
[33] Art. 1: «[...] di rosso (porpora) al fascio littorio d’oro circondato da due rami di quercia e d’alloro, annodati da un nastro dai colori nazionali».
[34] Si ringrazia Ivan Gnocchi del Gafo-Quinzano per la cortese segnalazione, oltre che per aver messo a disposizione materiale archivistico del Gafo, che ha consentito ulteriori ricerche su timbri e sigilli fra Ottocento e Novecento. Per Quinzano si trattò evidentemente di una situazione transitoria; altri pochi Comuni hanno tolto il fascio, ma hanno mantenuto per qualche decennio il capo con i soli serti decussati, o addirittura caricandolo d’altre figure.
[35] Non è stato purtroppo possibile reperire il verbale della deliberazione, in quanto gli atti del Consiglio Comunale di alcuni anni a partire dal 1949 non sono stati rinvenuti.
[36] Cfr. il sito dell’Archivio Centrale dello Stato, pagina di ricerca Ufficio Araldico - Fascicoli Comunali.
[37] «Ogni blasone è sempre opinabile e magari sfogliando qualche testo sacro antico si potrebbe obiettare. Ciò potrebbe essere dovuto anche al fatto che Gorra e io tentiamo sistematicamente di ragionare su ogni stemma, non solo utilizzando i lemmi consolidati in maniera automatica, ma anche valutando i casi che di volta in volta ci capitano e magari anche tentando di evitare arcaicismi ormai anacronistici. [...] Qualcuno potrà blasonare anche i numeri di merli del torrione, ma a scapito della pulizia e concisione (qualità invece imprescindibili). C’è chi insegue questi blasoni iper-burocratici in stile Dipartimento del Cerimoniale di Stato, Ufficio Onorificenze e Araldica della Presidenza della Repubblica, che secondo me rappresentano molto di più lo spirito del logo piuttosto che dello stemma (e i due mondi sono molto meno simili di quanto appaia)» (Fabio Bianchetti, comunicazione personale).
[38] Il castello araldico è un forte di forma solitamente (ma non sempre) quadrata merlato alla guelfa o alla ghibellina, munito di una torre centrale o di due laterali o di tre torri, ognuna con tre merli; nel secolo XIII con due torrioni è solitamente insegna di castellani e feudatari; con tre di città. La torre è invece un edificio fortificato, eminente, tondo o quadrato e merlato alla guelfa o alla ghibellina, solitamente di tre pezzi; può avere più palchi ed essere coperta. Un castello munito di torri si dice torricellato o turrito. Cfr. Bascapè-Del Piazzo, 1999, p. 1063 e passim.
[39] L’aquila dell’Impero di Occidente, concessa nel 1220 da Federico II di Svevia ai suoi sostenitori ghibellini, è spiegata di nero e talvolta coronata di nero in campo d’oro, dapprima monocipite e poi bicipite. Cfr. come sopra.
[40] Il capoè una pezza onorevole di prim’ordine, che occupa la parte più alta dello scudo per un’altezza pari ad un terzo dello stesso. Parecchi Comuni del bresciano utilizzano questa partizione in campo libero (come Flero, di verde pieno forse ricordo del tralcio degli antichi grappoli d’uva del suo stemma), o caricato d’immagini come le cinque spighe di farro dorate di San Paolo, talvolta allusioni a più borghi incorporati in un’unica entità amministrativa e raffigurati come stelle (Valvestino, Lograto) o croci (Calvagese). Curiosa è quella sorta di “capo bresciano” d’azzurro alla croce d’argento sugli scudi di Verolavecchia e Paratico.
[41] Va considerato che già nel Trecento, come ci informa Bartolo da Sassoferrato, i termini guelfo e ghibellino rimandavano più a fazioni e interessi locali che a partitanze ideologicamente definite, per cui attribuzioni di elementi imperiali o angioino-papali andrebbero fatte con molta cautela: come vedremo in seguito, del resto, sia le figure che i colori possono avere le genesi più disparate, con un forte elemento di contingenza e di territorialità di cui spesso si sono perse le ragioni. Inoltre, come oggi anche allora le vicende storico-politiche potevano avere una pesante influenza sulla militanza ideologica: Napo della Torre, potente capo del guelfismo milanese e fiero avversario dei Visconti, perso l’appoggio di Carlo d’Angiò, si avvicina al Rex Romanorum Rodolfo I d’Asburgo, che nel 1274 lo nomina vicario imperiale. In quell’occasione il campione dei guelfi non ha alcuna remora a porre sul suo scudo personale il capo dell’impero con l’aquila bicefala.
[42] Se questa ipotesi si avvicina alla realtà dei fatti, ripercorre il destino toccato alle case-torri valtellinesi, elementi connotativi del paesaggio urbano ripresi da varie insegne, ma che vanno perdendo la loro caratterizzazione dal Trivulziano agli stemmari più recenti, che ormai le disegnano come semplici torri. «Ed è comprensibile, in un periodo in cui torri e manieri avevano cominciato ad essere solo romantiche rovine del passato, che il disegnatore settecentesco non cogliesse più certe differenze, che invece l’osservazione quotidiana rendeva evidenti al miniatore rinascimentale» (Foppoli, 1997, p. 78).
[43] Giovanni da Lezze, 1610: «Quinzano. Terra discosta dalla Città 20 miglia in piano con un Castello circondato di fosse di raggione del Comune de fuoghi 500».
[44] Pizzoni, 1640, p. 9: «Quinzano hà il suo Castello, se ben hora non è con il suo solito splendore, ma per il sito e sua disposizione dimostra che fosse fortezza di molta considerazione, ritrovandosi molti vestigij di ciò, come verso mezzo dì, dove era la sua rocca, del qual luogo si vedono i fondamenti, in particolare d’una torre, e perciò la contrada a derimpetto si chiama Toresella, così verso Tramontata si sono veduti grossi fondamenti d’una torre detta Posterla».
[45] Sempre valida l’avvertenza metodologica che il Crollalanza formulava nel 1878, opponendosi a chi considerava l’araldica una «scienza fallace, in cui l’uomo più cauto si perde in un mare di congetture che lo conducono al dubbio e da questo all’errore. Ciò è falso. L’araldica non inganna che lo studioso impressionato a trovare una notizia ove questa non esiste».
[46] Così anche Ginanni, 1756: «I Castelli che sono composti di due, o più Torri fiancheggiate d’antimuri, dimostrano nell’Arme Signoria di Vassalli, ovvero che il suo Autore fosse Governator di qualche Piazza, e che contra de’ Nemici la difendesse, o la conquistasse. Alli Castelli adattar si possono ancora gli attributi proprj delle Torri».
[47] Se i colori nel medioevo assumevano quasi sempre una coppia di valenze positivo/negativo, ciò non accadde per il giallo, il cui aspetto solare venne per molto tempo ascritto alla sola tinta d’oro, lasciando al giallo in sé una marca infamante: con vesti di tale cromia venivano rappresentati i traditori, i pazzi e le persone al limite dell’ordine costituito.
[48] Si nota appena che i primi pezzi europei degli scacchi (gioco arrivato dall’India attraverso gli Arabi e i popoli che commerciavano con l’Oriente) erano bianchi e rossi e non bianchi e neri (cfr. Pastoureau, 2004).
[49] Chronicon Parmense, cit. in Borgia, 1991. Non è un caso che nella configurazione araldica del Sacro Romano Impero siano le regioni di più recente conquista ad avvalersi dell’aquila, mentre i territori di antica e radicata tradizione imperiale, come le zone meridionali alpine, si mantengano fedeli ai colori prearaldici rosso/argento (cfr. Zug Tucci, 1978).
[50] Cfr. Foppoli, 2013, che cita il Savorelli.
[51] Con riguardo all’origine materiale degli scudi, inizialmente lo smalto era rappresentato dal fondo metallico, mentre partizioni e figure erano colorate a pieno senza ombreggiature, per creare un vivace contrasto, funzionale alla riconoscibilità per le manovre belliche. È qui che si delineano le prime regole dell’araldica, che conoscono tuttavia significative eccezioni, quali le aquile metallo su metallo, o il particolarissimo per la sua eminenza stemma del Regno di Gerusalemme, le figure al naturale che sfuggono alla legge della sovrapposizione degli smalti, le tarde sfumature e ombreggiature (cfr. Crollalanza, 1878).
[52] Cfr. Ferrari, 2008. Il caso più eclatante nell’ambito gentilizio è forse quello dei Gambara, che abbiamo visto apparire nel ciclo infamante duecentesco del Broletto di Brescia dotati di scudo fasciato di nero e d’oro, mentre nel Trivulziano portano il tradizionale stemma d’argento al gambero rosso in palo. Va comunque ricordato che l’araldica civica è più tarda e meno documentata di quella familiare, almeno nell’Italia settentrionale.
[53] Il tanné (o tanè, o cannellato) è una tonalità utilizzata soprattutto nella tarda araldica inglese. In Italia il suo uso è limitato ai tornei o sporadico: l’esempio più noto è l’originario cappato dell’Ordine Carmelitano, che dal sec. XVIII diventa nero.
[54] Jacques de Vitry, “Ad potentes et milites”, Sermone LII, in Le Goff, 1985, p. 72.
[55] La corona è ornamento tipico per le istituzioni, omologa all’elmo dell’araldica gentilizia, nella quale le varie posizioni che esso assume (in maestà, di profilo, ecc.), la foggia della celata e le varie ornamentazioni rimandano alla titolazione del portatore.
[56] Del resto imparentata con l’etimologia di stemma, dal greco στέμμαcon l’antico significato di “unire strettamente, cingere” e quindi di corona o ghirlanda. L’accezione attuale si deve all’uso romano di sospendere ai busti raffiguranti gli antenati lunghe strisce di pergamena ornate di ghirlande, su cui era scritta la genealogia di famiglia.
[57] Il Regolamento tecnico araldico del 1905 all’art. 4 sanciva il divieto per Comuni, Provincie ed enti morali di servirsi dello stemma statale, mentre agli articoli 43 e 44 definiva le fogge delle varie corone murali. Un’ulteriore disciplina si ebbe con il RD 7 giugno 1943, n. 651 e relativo regolamento attuativo n. 652/1943.
[58] Oggi si tende a guardare con occhio particolarmente severo a questi ornamenti standard, in particolare alla corona turrita seriale imposta dalla Consulta Araldica e di per sé priva di caratterizzazione e significazione comunicativa: «un pesante gioiello da cerimonia, di quelli che si devono portare per forza a un matrimonio, se no la zia si offende» (Savorelli, 2009).
[59] Quinzano utilizza invece uno scudo sagomato, elegante ma presente solo nel gonfalone commerciale degli anni Cinquanta.
[60] Così Savorelli, 2009, che giudica molto severamente la «mentalità burocratica che presiede all’Ufficio Araldico, che è scleroticamente attaccato alle formule e considera ormai fissata una volta per tutte, rinunciando a rinnovare una certa normativa e un certo stile di maniera». Gli esempi citati nel testo sono ripresi dalla stessa pubblicazione.
[61] Figura (la cui natura va sempre blasonata) delineata senza dettagli e soltanto nel suo contorno, attraverso il quale si vede il campo. Se il contorno è conformato da una linea ben evidente e di un dato smalto, si blasona bordata. Se l’interno è di smalto diverso dal campo, si blasona ripiena (M.C.A. Gorra).
[62] Nell’ipotesi di richiesta di concessione o di approfondimento del presente studio, in considerazione della specificità della disciplina, sarebbe auspicabile affidare note araldiche e disegni a mani esperte della materia, e comunque tali da offrire le necessarie garanzie di attendibilità scientifica, magari assieme a una buona qualità formale della parte grafica.
[63] Ricordiamo la descrizione tecnica che ne fa il decreto per i Comuni: «formata da un cerchio aperto da quattro pusterle (tre visibili), con due cordonate a muro sui margini, sostenente una cinta, aperta da sedici porte (nove visibili), ciascuna sormontata da una merlatura a coda di rondine, il tutto d’argento e murato di nero» (G.U. n. 25, Serie Generale del 1/2/2011).
[64] «Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà (832) o di altro diritto reale (1066). Si può procedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa» (C.C., art. 1140).
[65] «1. Il Comune di Quinzano d’Oglio ha i propri segni distintivi nello stemma e nel gonfalone, approvati dagli organi comunali e riconosciuti ai sensi di legge. 2. Il Comune ha come segno distintivo lo stemma (Torre merlata ghibellina sovrastata da aquila). Il Comune fa uso, nelle cerimonie ufficiali, di un apposito gonfalone (Torre merlata ghibellina sovrastata da aquila su fondo azzurro). 3. L’uso dello stemma, nonché i casi di concessione in uso dello stesso ad enti o associazioni operanti nel territorio comunale, è consentito soltanto per finalità istituzionali» (art. 4 del vigente Statuto comunale).
[66] Fino agli anni Ottanta del secolo scorso venivano emanati decreti di riconoscimento per gli stemmi storici. Attualmente invece l’ufficio preposto redige un decreto di concessione indistintamente per tutti, parificando di fatto e inspiegabilmente le insegne utilizzate ab antiquoe quelle di realizzazione moderna.