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- Scritto da Silvia Bianchetti
- Pubblicato: 09 Luglio 2015
- Ultima modifica: 11 Luglio 2015
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SILVIA BIANCHETTI
Note su un presunto stemma della famiglia Nember di Quinzano
È stato posto il quesito circa l’attendibilità dello stemma riportato nell’immagine con riferimento alla famiglia Nember, attestata nel ceto dei nobili o notabili quinzanesi dalla seconda metà del Seicento, e probabilmente proveniente dal paese bergamasco di Nembro (Némber, nel dialetto locale). In merito, vi sono due distinti ordini di discussione, ovvero l’ambito di autorevolezza della postilla notarile e l’aspetto araldico in sé.
L’autenticazione notarile e la cosiddetta “Raccolta Bianchi”
Riguardo al primo punto, si è potuta esaminare una riproduzione fotografica di quello che potrebbe ritenersi una sorta di diploma, con in calce dichiarazione notarile di questo tenore:
N. 4/422 di repertorio.
Certifico io sottoscritto Dottor Cesare Pallavicini Notaio residente in Milano ed iscritto presso il collegio notarile di Milano che lo stemma qui riprodotto della famiglia Nember figura nel volume manoscritto AA nel foglio 66 già facente parte della Raccolta Bianchi, ora in possesso della libreria Araldica Vallardi.
In carta libera per gli usi consentiti dalla legge.
Milano 30 settembre 1964
(seguono timbro e firma del Notaio)
Da quanto sopra si evince che l’autenticazione attesta semplicemente l’estrazione da una raccolta di stemmi con la conformità della riproduzione all’originale ivi contenuto, e non l’effettiva titolarità o possesso dello stemma gentilizio, come d’altronde è insito nell’istituto giuridico dello strumento autenticatorio nel nostro ordinamento.
A questo proposito, va detto che il «manoscritto AA» si riferisce all’Archivio Araldico dell’editore Vallardi, che attraverso una serie di complicati passaggi e transizioni ben illustrati nell’introduzione del Catalogo stampato a Milano nel 1905[1], acquisì i diritti d’uso e riproduzione della raccolta di stemmi Bonacina ed altre minori, fra cui la citata Bianchi: quest’ultima è costituita da più volumi manoscritti in folio, contenenti oltre 60 000 stemmi gentilizi colorati di famiglie italiane e straniere. La mole di riproduzioni, e ancor di più, l’espresso prezziario di p. 9 del Catalogo[2], fanno propendere per un prudente apprezzamento dell’attendibilità storica degli emblemi gentilizi ivi contenuti, potendosi ritenere l’Archivio Vallardi un anticipatore o un collaterale dei numerosi studi commerciali in materia araldica sorti negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, a cui chiunque (privato ma anche Ente pubblico) poteva rivolgersi per vedersi confezionato uno stemma, per il quale l’unica cosa certa era un’omonimia o un’assonanza del cognome del richiedente con qualche illustre o nobile casata del passato, magari espressa in territori geograficamente molto distanti. Inoltre, sovente queste enormi ed enciclopediche collezioni acquisivano raccolte in auge tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, raccolte in cui venivano riprodotti – spesso con libere interpretazioni e senza alcuna consapevolezza filologica – stemmi copiati da altre quasi mai citate fonti, o realizzate di sana pianta insegne, a detta del Gorra, «a dir poco stravaganti» in quanto a sintassi araldica e proprietà storica.
Il presunto emblema dei Nember di Quinzano
Per quanto riguarda la famiglia Nember insediatasi a Quinzano, non si sono rinvenute attestazioni probanti la sua appartenenza al ceto nobiliare né in stemmari regionali[3], né negli atti ufficiali della Consulta[4] e neppure in compilazioni quali l’Elenco dei Nobili Lombardi”[5] dell’Impero Asburgico e l’Annuario della Nobiltà Italiana, XXXI edizione. In quest’ultima fonte, nel vol. III che raccoglie le stirpi nobilitate, in “Stati Preunitari” vengono citati i Nembrini-Gonzaga (i quali non paiono particolarmente pertinenti alla nostra ricerca), mentre nel vol. IV dedicato alle “Famiglie notabili” (ovvero quelle appartenenti al piccolo patriziato locale, alla borghesia arricchita, o dotate di una generica nobiltà priva di particolari predicati) in ambito bergamasco si annoverano le casate Nembrini, Nembri e Nembro: anche qui comunque non paiono ravvisarsi parentele dirette con i nostri Nember.
Per inciso, il Crollalanza blasona armi che possono avere qualche sparuto elemento tipologico vagamente in comune (campo, campagna e stella), ma pure alquanto differente nel tratto: anche se tali difformità non sono sconosciute all’araldica, pare veramente troppo poco per inferirsi qualche relazione[6].
D’altra parte sappiamo che gli emblemi, tranne che alle origini, non furono appannaggio esclusivo della classe dei milites, ma vennero assunti anche dai ceti borghesi e addirittura da facoltosi contadini. Sotto questo aspetto, nulla vieterebbe che i Nember si fossero liberamente fregiati di un proprio stemma, anche se è difficile appurare quella che è solo una possibilità, e ancor più assumere l’insegna sopra menzionata come rappresentativa della casata, per quanto araldicamente utilizzi non senza proprietà – anche se con molta libertà – alcune regole sintattiche della materia.
Comunque, essa pare suggerire una realizzazione molto tarda. Maggiori informazioni si potrebbero trarre da una migliore conoscenza degli eventuali emblemi gentilizi utilizzati, dipinti o scolpiti nelle proprietà Nember, poiché è impensabile che, qualora la famiglia possedesse un’arma, abbia rinunciato a utilizzarla e a renderla pubblica attraverso la sua ostensione.
Anche se l’emblema di cui sopra pare una libera elaborazione dell’illustratore della cosiddetta Raccolta Bianchi, si diceva che non è scevro da suggestioni araldiche. Si tratta infatti di uno scudo sagomato con lembi a frastagli mistilinei (iconograficamente probabile derivazione dall’arma tornearia), attestato in ambito italiano a partire dalla seconda metà del XVII sec.[7], che potrebbe definirsi sommariamente composto come semipartito spaccato in campo di cielo, alla nuvola movente dal cantone sinistro del capo, caricata da un cherubino in atto di soffiare su una rosa a quattro petali di rosso, bottonata d’oro, fogliolinata e gambuta di verde, nodrita e attraversante sul mare, il tutto al naturale, e accompagnato nel cantone destro del capo da una stella di cinque raggi d’oro[8].
I simbolismi si sprecano, avendo ogni trattatista barocco data una propria versione, per cui si accennerà solo di sfuggita al fatto che per la maggior parte di essi aquilone avesse significato di forte passione; la rosa (notabilmente eretta rispetto alla direzione del vento) rimandasse a grazia, onore e merito, e la stella azioni magnanime, chiara fama e splendore di nobiltà. Quest’ultima in area lombarda e toscana fu considerata in genere contrassegno di parte guelfa, mentre in Romagna indicava partitanza ghibellina. Non vale comunque la pena di perdersi in tali sottili distinzioni che, come vedremo infra per gli ornamenti esteriori, erano assai più vezzi dei commentatori che precetti rigorosamente seguiti.
Ancor meno rispettosi delle regole compositive appaiono invece la leziosità dell’impianto e del tratteggio, la tecnica delle ombreggiature (ammessa, ma molto tarda e aborrita dall’araldica classica), e l’utilizzo arbitrario degli smalti, elementi questi che portano a ritenere lo stemma prodotto in un’epoca in cui l’araldica aveva già abbondantemente perso i suoi attributi segnici e iconografici, per divenire collezionismo e decorazione.
Se si parte quindi dal presupposto che si tratta di una raffigurazione priva delle significazioni iconografiche proprie degli emblemi degli albori, il tematismo dell’insegna potrebbe rifarsi al simbolismo un po’ pedante e criptico ereditato dal gusto barocco, o a una lontana origine parlante. L’aggiunta «Nüberg» (dalla riproduzione fotografica non è dato comprendere se coeva o successiva all’autenticazione notarile, e quindi riferibile o meno alla raccolta da cui è tratto lo stemma) sembra suggerire un’ascendenza germanica e forse rimandare a un’improbabile (ma sempre possibile) assonanza con il termine “nube”, il che spiegherebbe il motivo del cherubino in atto di soffiare come un aquilone (o borea, o vento, che dir si voglia), anche se la nuvola araldica si rappresenta in genere con un tratto mosso ondilineo.
La para-etimologia si ferma comunque alla lingua italiana, poiché il corrispondente termine tedesco è wolke, e nubi stilizzate sono quelle che appaiono sulle insegne dei Wolkenstein, signori di Selva di Valgardena. Può venir considerata comunque pure la parentela vocale con il sostantivo nembo, considerando che i Nuvolone, conti del mantovano, portano un’arma parlante, come pure altre famiglie di tale cognome nel resto d’Italia.
Fabio Bianchetti, a cui devo questo suggerimento, ritiene comunque alquanto dubbiosa tale ricostruzione, e certo restano da spiegare fiore e stella, elementi che in araldica si caricano di troppi attributi per considerarli dei semplici incidenti: la loro posizione nell’economia dello scudo, infatti, suggerisce una funzione non meramente accessoria. Inoltre il Gorra nota acutamente che «la stella, il fiore e la testina alata che soffia su di esso sono le medesime componenti dello stemma assunto a fine XVIII sec. da Papa Pio VI, talmente specifiche che non sembra improbabile renderle ispiratrici di questa composizione (qualunque ne sia l’origine)».
Qualche parola, infine, sugli ornamenti esteriori, che tanta importanza assunsero nella trattatistica sei-settecentesca, finché il Regolamento della Consulta Araldica sabauda del 1943, redatto dal Conte Manno rifacendosi alla tradizione, non ricondusse gli indizi di nobiltà unicamente alla materia e posizione degli elmi e alla tipologia delle corone[9].
Lo scudo del presunto stemma dei Nember è cimato da elmo graticolato o a cancelli, che iniziò a imporsi nella pratica tornearia dopo il 1420, e divenne usuale nelle armi araldiche dal sec. XVII per distinguere le insegne dei nobili, in genere rappresentati appunto da affibbiature e da materiali quali argento e oro con rabescature e collane equestri, oltre che dalla posizione di profilo, in terzo (a tre quarti) o in maestà (di fronte), mentre gli elmi dei semplici cittadini (definiti infatti “di cittadinanza”) venivano raffigurati bruniti e posti solo di profilo a celata abbassata. Va detto comunque che le regole minuziosissime e pedanti che dovevano presiedere a questi ornamenti vennero elaborate soprattutto dalla trattatistica secentesca, e di fatto quasi mai seguite, rappresentandosi ognuno come meglio credeva con i contrassegni che sembravano garantirgli una maggiore nobiltà, anche se si cercò di evitare in ogni caso l’utilizzo di insegne espressamente regali[10]. Nel caso dello stemma in esame, l’elmo d’argento posto in terza graticolato di cinque o sette affibbiature d’oro, bordato d’oro, collarinato[11] nelle varie interpretazioni dei prontuari d’epoca rimanda ad una titolazione che va da conte a cavaliere ereditario o di generica nobiltà. Anche qui è più che legittimo il dubbio che la raffigurazione possa risolversi in un mero elemento decorativo in omaggio al gusto del tempo, senza troppe pretese informative sul grado del portatore.
Al di sopra dell’elmo sta una decorazione barocca con svolazzi che scendono fino ai tre quarti dello scudo, dipartendosi da una sorta di piumaggio posato sul colmo dell’elmo, libera interpretazione dell’antico cercine, una cordonatura che tratteneva i lambrecchini, ovvero la rappresentazione araldica delle strisce di stoffa utilizzate per preservare il copricapo e la nuca del cavaliere dall’acqua e dai raggi cocenti del sole. La sintassi compositiva prescriveva norme anche per la forma e colorazione di questi accessori: anzitutto, per l’elmo graticolato era raccomandato appunto il tipo svolazzante, destinato a divenire nel tempo una decorazione sempre più fantasiosa e avviluppata. Era poi d’uopo che il colore riproponesse gli smalti dello scudo, regola che lo stemma in esame rispetta pur nel suo policromatismo con le varie ed eleganti volute acantiformi e con la ripresa degli smalti oro-argento nella faccia interna a vista.
A fronte delle considerazioni di natura storica, compositiva e araldica sopra espresse, e in base a semplice esame della riproduzione presentata, si ritiene alquanto dubbio che il presunto stemma dei Nember/Nüberg riportato nella Raccolta Bianchi dell’Archivio Araldico Vallardi possa essere riconducibile alla famiglia quinzanese.
Quinzano d’Oglio, 20/06/2015
Ringraziamenti - Sono grata ad Ivano Gnocchi del Gafo (Gruppo Archeologico Fiume Oglio), che si è imbattuto in questa insegna e mi ha permesso di approfondire la questione, pur essendo io del tutto novizia nella scienza araldica. Proprio per questa ragione, mi sono avvalsa della preziosissima competenza del prof. Maurizio Carlo Alberto Gorra (Membro Associato AIH, Academie Internationale d’Héraldique) e di Fabio Bianchetti (miniaturista e studioso della materia), che ringrazio di cuore per la sempre squisita e cordiale disponibilità: a loro devo una cospicua messe di segnalazioni, puntualizzazioni critiche e indicazioni; gli eventuali errori, invece, sono esclusivamente miei.
[1] Catalogo delle opere Araldiche, Genealogiche, Biografiche e Storiche manoscritte e stampate componenti l’Archivio Araldico Vallardi fondato dalla Nobile Famiglia Bonacina ed ampliato dalle riunite biblioteche araldiche Bianchi, Vallardi, Tenenti, tettoni e Litta, Milano 1905.
[2] Il caso in oggetto pare ricadere sotto la voce indicata come “ricerca di stemma da eseguirsi in carta da bollo, autenticata da Notaio e dal R. Tribunale di Milano” (quest’ultima parte non presente nella riproduzione fotografica, forse riportata sul retro o su una diversa pagina), commissione dal costo perlomeno di L. 15.
[3] Sono stati visionati gli indici degli stemmari Trivulziano (1450 ca), Archinto (seconda metà sec. XVI), Cremosano (1673), Bosisio (seconda metà sec. XVIII). Sono stati altresì consultati: Mediolanensis insigna, 1550; Armerista bresciano, camuno, benacense e di Valsabbia di Monti della Corte 1974 (contenente: Famiglie patrizie che siedono in Consiglio nel 1796, Casate bressane di Pandolfo Nassino sec. XVI, Catastico di Giovanni da Lezze 1610); le varie compilazioni del Gelmini della seconda metà dell’Ottocento (Descrizione di armi gentilizie bresciane, Libro d’oro delle famiglie nobili bresciane, Stemmi bresciani); Le famiglie del patriziato bresciano di Monti della Corte 1960; Elenco storico patrizi bresciani e loro ascendenze fino al 1796 del 1902; Stemmario mantovano di Castagna Predari 1991, Stemmi delle famiglie bergamasche e oriunde della provincia di Bergamo o ad essa per diverse ragioni attenenti” di Gherardi Camozzi Vertova 1888. Dato l’enorme numero di collazioni, raccolte, studi, l’elenco deve considerarsi tutt’altro che esaustivo e non più che una semplice prima ricognizione, avendo come riferimento l’ambito geografico, la finestra temporale e la probabile appartenenza dei Nember quinzanesi alla piccola nobiltà o all’alta borghesia locale.
[4] Consultazione on line degli archivi messi a disposizione dal MIBAC e dalle reti statali nazionali.
[5] Elenco dei Nobili Lombardi, Milano, Imperiale Regia Stamperia, 1840.
[6] G.B. di Crollalanza, 1888, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, vol. II, Pisa, Giornale Araldico. Così l’autore blasona le armi: «NEMBRI di Bergamo: trinciato d’azzurro e di rosso, alla torre d’argento, merlata di tre pezzi alla ghibellina, sormontata da un giglio dello stesso, e piantata sopra una campagna di verde». – «NEMBRINI di Bergamo: d’azzurro ad un bastone posto in sbarra ed una spada d’argento, manicata d’oro, in banda, formanti insieme la croce di S. Andrea, accostata da quattro stelle d’argento».
[7] O. Neubecker, 1980, Araldica. Origini, simboli, significato, Milano, Longanesi.
[8] Blasone a cura del prof. Maurizio C. Alberto Gorra, AIH.
[9] «Art. 61 - Gli elmi indicano la dignità a seconda degli smalti che li coprono e secondo la loro posizione, la inclinazione della ventaglia e della bavaglia e la collana equestre della gorgiera. La superficie brunita o rabescata, le bordature e cordonature messe ad oro o ad argento, il numero dei cancelli nella visiera non danno indizi di dignità. Art. 62 - Gli elmi sono di acciaio, dorati per la Famiglia Reale, argentati per le famiglie nobili, abbrunati per le famiglie di cittadinanza. Art. 64 - Gli elmi delle famiglie nobili sono argentati con la gorgiera fregiata di collana e medaglia con la ventaglia chiusa e la bavaglia aperta. Si possono collocare o di pieno profilo o di tre quarti a destra. Art. 66 – Gli elmi delle famiglie di cittadinanza sono di acciaio brunito senza collana, con la visiera chiusa e collocati di pieno profilo a destra» (RD 7 giugno 1943, n. 652). I termini di destra e sinistra sono da intendersi in maniera araldica, che fa riferimento al lato del cavaliere imbracciante lo scudo, e quindi speculari rispetto all’osservatore (pertanto la destra araldica è la sinistra di chi guarda).
[10] Così il Ginanni nel suo L’Arte del Blasone dichiarata per Alfabeto del 1751: «Egli è ben però vero, che varie sono le opinioni de’ Scrittori intorno a cotali diferenze degli Elmi, che, come quelle delle Corone, oggidì poco si osservano, arrogandosi molti, o per ambizione, o per ignoranza, de’ contrassegni di onore, che ad essi non si convengono».
[11] Ovvero «con la gorgiera fregiata di collana e medaglia» (C. Manaresi, voce “Araldica” nell’Enciclopedia Italiana Treccani). L’ornamento, detto anche “collana equestre”, era tipico per le famiglie nobili (cfr. anche l’articolo 64 del Regolamento della Consulta Araldica citato in nota 7). Nell’alto medioevo, quindi in epoca pre-araldica, spesso la catena d’argento o d’oro denotava posizioni di comando militare, forse retaggio dell’antica torques dei popoli pre-romani e orientali quale segno di distinzione e di rango.